Il Vangelo pullula di lebbrosi: tra i bianchi borghi della Palestina e il silenzio superbo di chi non capisce la Sue parole, tra le parabole del Nazareno e le martellate della Crocifissione, campeggia il loro grido agghiacciante e premonitore: "allontanatevi, siamo infetti!". Nessuno si avvicina loro, la pietà cristiana muore nel raggio di qualche metro dalle loro piaghe. Resta solo Lui, il Vasaio nelle cui mani il fango può ritrovare forma, riacquistare bellezza e definizione, luce e calore. Lui non scappa, non fugge dalle sue responsabilità, s'addentra nel grido di dolore per cercarne l'origine e il battito. E se Lui resta - mentre tutti fuggono - il lebbroso stavolta s'avvicina lui (Mc 1, 40-45). Non l'accompagna nessuno: è un animale che puzza. L'unico caso nel vangelo di Marco in cui un ammalato s'avvicina da solo: con umiltà, con fiducia estrema, con cautela. Non c'è l'astuzia di chi vuol rubare a Gesù l'ennesimo miracolo, l'eloquenza ricca di lamenti del dolore, la mimica dell'implorazione in un volto che ormai è soltanto una spugna. Allontanato dalla società e divelto nel fisico, gli rimangono due possibilità: il miracolo, il salto nella vita, la riabilitazione sociale o restare così com'è, con tutto il male del mondo ficcato dentro di lui sino all'ultimo giorno della sua vita. "Se tu vuoi, puoi guarirmi". Lui lo punta dritto negli occhi: sente il cuore che batte, la lebbra pronta a sgretolarsi, il cuore umile che riconosce in Lui l'autore della vita: "lo voglio, guarisci!". Tra queste due frasi non si muove foglia, bestie e uomini tacciono. Solo la mano di Cristo s'allunga, compie il breve viaggio entro quella spanna d'aria, scioglie in un abbraccio la paura e la pietà.
A primavera due semi si trovavano uno a fianco dell'altro. Il primo disse: "Voglio crescere e spingere le mie radici in profondità, fare spuntare i germogli sopra la crosta della terra, dispiegare le gemme come bandiere per annunciare la primavera, sentire il calore del sole sul volto, la benedizione della rugiada sui petali". E crebbe. Il secondo replicò: "Ho paura. Se spingo le radici nel terreno, non so cosa incontrerò nel buio. Se mi apro la strada attraverso il terreno duro posso danneggiare i miei germogli. Se apro le gemme, una lumaca se le mangia. Se metto i fiori, un bambino potrebbe strapparmi da terra. E' meglio aspettare finché ci sarà sicurezza". E aspettò. Una gallina che raschiava il terreno in cerca di cibo trovò il seme che aspettava. E subito se lo mangiò.
In ogni storia c'è il sintomo della lebbra: Satana è sempre al lavoro nella sua
spelonca per disumanizzare la bellezza della Creazione. E' il macigno della
solitudine, della miseria, del menefreghismo, dell'anonimato, della
disperazione, del peccato, della mormorazione falsa, della malizia spaventosa.
Macigni enormi messi all'imboccatura dell'anima, che non lasciano filtrare
l'ossigeno, che bloccano ogni lama di luce, che impediscono alle parole di
essere feconde. Adesso devono tacere tutti, uomini e bestie, pure il lebbroso
deve rientrare in città muto nelle parole e nei gesti. Cristo impone il
silenzio: dalla mansueta tenerezza della guarigione passa con veemenza al
fastidio, si scalda, ammonisce, intima di tacere perché la gente sta
fraintendendo tutto, ieri come oggi. L'uomo ai Suoi occhi è sempre un diamante
da sgrezzare.
E anche Dio ha il suo dilemma da sciogliere: come provare compassione e intervenire senz'apparire quel fantoccio assurdo che troppa gente porta oggi nel cuore? Mica un problema da poco, sopratutto per uno che si chiama Dio.
don Marco Pozza
E anche Dio ha il suo dilemma da sciogliere: come provare compassione e intervenire senz'apparire quel fantoccio assurdo che troppa gente porta oggi nel cuore? Mica un problema da poco, sopratutto per uno che si chiama Dio.
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