26 novembre 2011

CON UN PAIO DI SCARPE - 1° DOMENICA AVVENTO

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all'improvviso, non vi trovi addormentati. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».



Stamattina mentre stringevo la stringa delle scarpe le ho guardate per bene e ho tentato di chiedere loro da quanto tempo svolgevano il prezioso servizio di accompagnare i miei passi. Mi sono reso conto che da molto più di un anno, forse due, sono mie fidate compagne giornaliere.

Ho pensato alle mani sconosciute che le avevano create in modo così bello da renderle ancora piacevoli da sembrare quasi nuove. Come mi piacerebbe incrociare il viso di quella o quelle persone, e dire loro che il loro lavoro è risultato preziosissimo lavoro ha avuto un notevole successo, permettendomi, non solo di fare bella figura, ma soprattutto di farmi stare bene nel corso delle giornate.

Quando stanno bene i piedi, sembra che tutto il corpo stia bene. Mai provato a camminare anche con un minuscolo sassolino nelle scarpe? Sembra quasi impossibile come possa influenzare negativamente nel benessere globale della giornata.

Penso alle scarpe perché le collego necessariamente al camminare, al muoversi, all’andare verso. Si sa che anche l’esperienza umana è un continuo e progressivo “andare”. La vita è tutta un partire e un arrivare e, mai si finisce.

Così, il tempo che ci è dato da vivere, ci ricorda che siamo sempre in cammino. Che c’è sempre una meta che ci aspetta, un obiettivo da raggiungere, un desiderio da assecondare, un sogno da realizzare, … Ancora una volta all’orizzonte del tempo prossimo apparirà la Solennità della festa più amata dagli uomini: il Natale!

Ebbene il tempo di Avvento è tornato! Senza accorgerci ci risiamo! Ancora una volta questo tempo ci coinvolge e copre, meglio ancora … ci rimette in pista. Pronti a ripartire?

L’invito è sempre forte e in questo tempo, dove regna sovrana e quasi incontrastata la parola “crisi”, diventa una provocazione molto forte e incisiva. Siamo invitati ad entrare nel tempo della speranza.

Avvento vuol dire letteralmente avvicinarsi, venire vicino, venire incontro, …

È il tempo per chi si incammina. Il tempo in cui tutto si fa più vicino: Dio a noi, noi agli altri, io a me stesso.

Avvento possiamo dire, è il tempo in cui possiamo imparare che cosa sia davvero urgente: abbreviare le distanze e tracciare cammini d'incontro!

Nel Vangelo il padrone se ne va e lascia tutto in mano ai suoi servi.

È un grande atto di fiducia, da parte di Dio ed è assunzione di una responsabilità enorme, da parte dell'uomo.

Quando Dio ha creato l’uomo l’ha posto custode del creato. (vedi Gn 2,15)

Ma, come custodire i beni di Dio che abbiamo fra le mani, cioè il mondo e ogni essere vivente?

Ci siano di conforto le parole di Ermes Ronchi:

Il Vangelo di questa prima domenica di Avvento ci propone due atteggiamenti iniziali: fate attenzione e vegliate!

Tutti sappiamo che cosa comporta una vita distratta: fare una cosa e pensare ad altro, incontrare qualcuno ed essere con la testa da tutt'altra parte, lasciare qualcuno e non ricordare neppure il colore dei suoi occhi, per non averlo guardato. Gesti senz'anima, parole senza cuore.

Vivere con attenzione è l'altro nome dell'Avvento e di ogni vita vera.

Ma, attenti a che cosa?

Siamo invitati ad essere attenti alle persone, alle loro parole, ai loro silenzi, alle domande mute e alla ricchezza dei loro doni.
Quanta ricchezza di doni sprecata attorno a noi, ricchezza di intelligenza, di sentimenti, di bontà, che noi distratti non sappiamo vedere.

Siamo chiamati ad essere attenti al mondo grande, al peso di lacrime di questo pianeta barbaro e magnifico, alla sua bellezza, all'acqua, all'aria, alle piante.

Attenti infine, alle piccole cose di ogni giorno, a ciò che accade nel cuore, nel piccolo spazio che mi è affidato.

Il secondo verbo: vegliate.

Vegliare, contro la vita sonnolenta, contro l'ottundimento del pensare e del sentire, contro il lasciarsi andare.

Vegliate perché c'è un futuro; perché non è tutto qui, il nostro segreto è oltre noi, perché viene una pienezza che non è ancora contenuta nei nostri giorni, se non come piccolo seme.

Vegliate perché c'è una prospettiva, una direzione, un approdo.

Vegliare come un guardare avanti, uno scrutare la notte, uno spiare il lento emergere dell'alba, perché la notte che preme intorno non è l'ultima parola, perché il presente non basta a nessuno.

Vegliate su tutto ciò che nasce, sui primi passi della pace, sui germogli della luce.

Attesa, attenzione, vigilanza sono i termini tipici del vocabolario dell'Avvento e indicano che tutta la vita dell'uomo è tensione verso, uno slancio verso altro che deve venire.

L’Avvento ci dice che il segreto della nostra vita è oltre noi.

Allora è sempre tempo d'Avvento, sempre tempo propizio per abbreviare distanze, per vivere con attenzione. È sempre tempo di adottare strategie di risveglio della mente e del cuore, in modo da non arrendersi al preteso primato del male e della notte, in modo da non dissipare bellezza, e non peccare mai contro la speranza.

Riprendo a guardare le mie scarpe e penso all’invito di continuare il cammino con fiduciosa speranza. Mi sento spronato a muovere i passi del mio andare, di muovere piedi, gambe, ma … soprattutto il cuore! Ci sarà pure più buio nei giorni freddi dell’inverno, ma la luce che mi aspetta illumina il cammino e riscalda il freddo del cuore.
Non sarà mai notte se saprò essere attento e vigilante.

Chi vigila, accompagna la notte a disciogliersi alla luce dell’alba e allora sarà vera luce.

Sarà vero Natale. Quel giorno potrò far riposare le mie scarpe ed entrare a piedi nudi con grande riverenza e rispetto, nel cuore del Dio Bambino mi aspetta per sorridermi e riscaldare il cuore, proprio come solo i bambini sanno fare.
Se questo Bambino poi è Dio … allora tanto di più!

AVVENTO: SIGNIFICATO E ORIGINE

Tutti i grandi eventi esigono una preparazione.
Per questo, la Chiesa ha istituito, nella Liturgia,
un periodo che precede il Natale: l'Avvento.
Ma, lungo la storia della Chiesa,
ha assunto diverse forme.

Ricevere una visita è un'arte che una padrona di casa esercita con frequenza. Quanto più l'ospite è illustre, tanto più sono esigenti i preparativi. Immagini il lettore che in una Messa domenicale il suo parroco annunci la visita pastorale del vescovo diocesano, accresciuta dal seguente particolare: uno dei parrocchiani sarà scelto a sorte per accogliere il prelato a pranzo, a casa sua, dopo la Messa. Di sicuro, per alcuni giorni, in quella famiglia tutto il tempo sarebbe dedicato ai preparativi da fare per una visita tanto onorevole: la scelta del menù, la decorazione della casa, i vestiti da indossare per l' occasione eccezionale. Alla vigilia, una pulizia generale della casa sarebbe di prassi, in modo da risultare tutto perfettamente in ordine, nell'attesa del gran giorno.

Questa preparazione che normalmente si fa, nella vita sociale, per ricevere una visita importante, conviene che si faccia anche in campo soprannaturale. È quello che succede, nel ciclo liturgico, in relazione alle grandi festività, come ad esempio il Natale. La Santa Chiesa, nella sua plurisecolare saggezza, ha istituito un periodo di preparazione, per sottolineare l'importanza di questo avvenimento e offrire a tutte le anime cristiane i mezzi di purificazione per celebrare degnamente questa solennità. Questo periodo è chiamato Avvento.

Significato del termine

Avvento - adventus, in latino - significa venuta, arrivo. È una parola di origine profana che designava la venuta annuale della divinità pagana, al tempio, per fare visita ai suoi adoratori. Si credeva che il dio, la cui statua era lì oggetto di culto, rimanesse in mezzo a loro durante la solennità. Nel linguaggio corrente, denominava anche la prima visita ufficiale di un personaggio importante, una volta assunto un alto incarico.

Così, alcune monete di Corinto perpetuano il ricordo dell'adventus augusti, ed un cronista dell'epoca qualifica con l'espressione adventus divi il giorno dell'arrivo dell'Imperatore Costantino. Nelle opere cristiane dei primi tempi della Chiesa, specialmente nella Vulgata, adventus si trasformò nel termine classico per designare la venuta di Cristo sulla terra, ossia, l'Incarnazione, inaugurando l'era messianica e, dopo, la sua venuta gloriosa alla fine dei tempi.

Il sorgere dell'Avvento Cristiano

Le prime tracce dell'esistenza di un periodo di preparazione al Natale appaiono nel V secolo, quando San Perpetuo, Vescovo di Tours, stabilì un digiuno di tre giorni, prima della nascita del Signore. È sempre della fine di questo secolo la "Quaresima di San Martino", che consisteva in un digiuno di 40 giorni, a partire dal giorno dopo la festa di San Martino. San Gregorio Magno (590- 604) fu il primo papa a redigere un ufficio per l'Avvento e il Sacramentario Gregoriano è il più antico nel predisporre messe specifiche per le domeniche di questo tempo liturgico.

Nel secolo IX, la durata dell'Avvento si ridusse a quattro settimane, come si legge in una lettera del Papa San Nicola I (858-867) ai bulgari. Nel XII secolo il digiuno era già stato sostituito da una semplice astinenza. Malgrado il carattere penitenziale del digiuno o astinenza, l'intenzione dei papi, nell'alto Medioevo, era quella di provocare nei fedeli una grande aspettativa per la venuta del Salvatore, orientandoli in vista del suo ritorno glorioso alla fine dei tempi.

Da qui il fatto che tanti mosaici rappresentavano vuoto il trono del Cristo Pantocrator. Il vecchio vocabolo pagano adventus si intende anche nel senso biblico ed escatologico di "parusia".

L'Avvento nelle Chiese dell'Oriente

Nei diversi riti orientali, il ciclo di preparazione per il grande giorno della nascita di Gesù si è formato con caratteristiche accentuatamente ascetiche, non abbraccia tutta l'ampiezza dell'attesa messianica che caratterizza l'Avvento nella liturgia romana Nella liturgia bizantina si distingue, nella Domenica precedente al Natale, la commemorazione di tutti i patriarchi, da Adamo a Giuseppe, sposo della Santissima Vergine Maria. Nel rito siriaco, le settimane che precedono il Natale si chiamano "settimane delle annunciazioni". Esse evocano l'annuncio fatto a Zaccaria, l'Annunciazione dell'Angelo a Maria, seguita dalla Visitazione, la nascita di Giovanni Battista e l'annuncio a Giuseppe.

L'Avvento nella Chiesa Latina

È nella liturgia romana che l'Avvento assume il suo significato più ampio. Molto differente dal bambino povero e indifeso della grotta di Betlemme, ci appare Cristo, nella prima Domenica, pieno di gloria e splendore, potere e maestà, attorniato dai suoi Angeli, per giudicare i vivi e i morti e proclamare il suo Regno eterno, dopo gli avvenimenti che precederanno questo trionfo: "Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti" (Lc 21, 25) "Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'Uomo" (Lc 21, 36). È la raccomandazione del Salvatore.

Come rimanere in piedi davanti al Figlio dell'Uomo? A noi tocca arrossire di vergogna, come dice la Scrittura. La Chiesa così ci invita alla penitenza e alla conversione e ci colloca, nella seconda Domenica, davanti alla grandiosa figura di San Giovanni Battista, il cui messaggio aiuta a mettere in risalto il carattere penitenziale dell'Avvento.

Con la gioia di chi si sente perdonato, la terza Domenica comincia con la seguente proclamazione: "Rallegratevi sempre nel Signore. Nuovamente io vi dico: rallegratevi! Il Signore è vicino". È la Domenica Gaudete. Essendo ormai prossimo l'arrivo dell'Uomo- Dio, la Chiesa chiede che "la bontà del Signore sia conosciuta da tutti gli uomini". I paramenti sono rosa.

Nella quarta Domenica, Maria, la stella del mattino, annuncia l'arrivo del vero Sole di Giustizia, per illuminare tutti gli uomini. Chi, meglio di Lei, per condurci a Gesù? La Santissima Vergine, nostra dolce avvocata, riconcilia i peccatori con Dio, addolcisce i nostri dolori e santifica le nostre gioie. È Maria la più sublime preparazione al Natale.

Con questo tempo di preparazione, la Chiesa vuole insegnarci che la vita in questa valle di lacrime è un immenso avvento e, se viviamo bene, cioè, in accordo con la Legge di Dio, Gesù Cristo sarà la nostra ricompensa e ci riserverà in Cielo un bel posto, come sta scritto: "Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano" (1Cor 2, 9).

(Revista Araldi del Vangelo, Dicembre/2006, n. 40, p. 18 - 19)

19 novembre 2011

SOLENNITA' DI CRISTO RE - 20 novembre 2011

Dio ha legato la nostra salvezza a opere semplici, quotidiane

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».
(Matteo 25, 31-46)


Seduti a tavola, gustando prelibatezze preparate con amore o al bar, davanti a un caffè o, piuttosto che appoggiati al carrello della spesa ancora pieno o in una lunga chiacchierata al cellulare … con quanta facilità si giudica qualcuno!
Mi fa sorridere quando, parlando, uno prima si scusa “sai non è per esprimere giudizi, ma ….” E con questa premessa si usano le frasi killer con una facilità da far impallidire anche il più terribile degli inquisitori della storia.
Tanto bravi nell’esprimere e regalare giudizi, quanto impauriti da quello degli altri!
Del resto siamo sempre sotto giudizio. Ci giudicano i figli, i genitori, il partner, senza parlare dei colleghi o dei capi al lavoro, gli amici o semplici conoscenti, spesso anche coloro che manco ci conoscono.
L’arte del seminare e distribuire giudizi è uno degli sport più praticati dall’uomo.
In questa domenica, in tutte le chiese di rito romano si chiude l’anno liturgico, con la Solennità di Cristo re dell’universo.
Il Vangelo proposto dalla liturgia, dipinge una visione potente, drammatica, da sempre conosciuta come il “giudizio finale”. A questo testo si sono ispirati, scrittori, artisti, poeti e musicisti.
Disegna una “scena” dove è rivelata, più che la sentenza ultima da parte dell’ineffabile e temuto Dio, la verità ultima sull'uomo!
Ebbene si, svelato l’arcano “progetto uomo” da parte di Dio. La verità del suo essere sta proprio nella descrizione di questa pagina evangelica.
Ci spaventano i giudizi degli altri, ma poco pensiamo al vero e importante giudizio, quello finale. Tra e nostre “paure” quella del giudizio finale dovrebbe essere temuta in primis: che ne sarà di me?
Qualcuno potrebbe sentirsi tranquillo perché si presenterà all’appello d’esame, carico di tante Messe partecipate, di “S. Comunioni”, di una moltitudine di rosari recitati, di vita attiva in Parrocchia, di tanti pellegrinaggi e così via.
Ma, ahimè, ci si troverà di fronte ad un simpatico “giudice” che non chiederà nulla di tutto questo!
Dio mostrerà a ciascuno di noi cosa resta della vita quando non resta più niente. Resta l'amore del prossimo.
Avevo fame, avevo sete, ero straniero, nudo, malato, in carcere: e tu mi hai aiutato.
Gesù l’ha ricordato bene, ammonendo tutti con una certa veemenza che … "Non chiunque mi dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli".
E tutte le mie preghiere? Le pratiche di pietà? Le Messe? … a che servono?
Ci sembra di percepire Dio nel ricordarci che quelli sono gli strumenti indispensabili per essere in stretta sintonia con Colui, che è la fonte dell’amore, della carità.
Senza la preghiera e i sacramenti, l’uomo corre il rischio di ridurre a semplice filantropia ciò che invece è carità e amore.
Tutti sono capaci di fare del bene, non tutti però di esprimerlo come esperienza di amore ricevuto per essere donato.
Ci troviamo così di fronte ad una pagina stupenda, dopo quella delle Beatitudini.
Sei passi di un percorso che ci indicano qual è la vera sostanza della vita che altro non è che esperienza di carità.
Sei passi verso la terra come la sogna Dio: “Tutto quello che avete fatto a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me!”. Il povero è come Dio!
Carne di Dio sono i poveri, i loro occhi sono gli occhi di Dio, la loro fame è la fame di Dio.
Se un uomo sta male anche Lui sta male.
Noi, ahimè, abbiamo ridotto i poveri ad una categoria sociale, all'anonimato.
Invece per il Vangelo il povero non è un anonimo, ha il nome di Dio!
Il nostro è un Dio che ha legato la salvezza non ad azioni eccezionali, ma ad opere quotidiane, semplici, possibili a tutti.
Non si limita a chiedere opere di culto verso di lui, ma che si completino con il culto degli ultimi della fila. Un Dio che dimentica i suoi diritti, preferendo i diritti dei suoi amati.
E mi sorprende, m'incanta sempre un'immagine: gli archivi di Dio non sono pieni dei nostri peccati, raccolti e messi da parte per essere tirati fuori contro di noi, nell'ultimo giorno. Gli archivi dell'eternità sono pieni sì, ma non di peccati, bensì di gesti di bontà, di bicchieri d'acqua fresca donati, di lacrime accolte e asciugate. Una volta perdonati, i peccati sono annullati, azzerati, non esistono più, in nessun luogo, tanto meno in Dio.
Meraviglia ai nostri occhi sarà scoprire che il “giudizio” non sarà il male, ma il bene!
Dio non ci presenta l'elenco delle nostre debolezze, ma la parte migliore di noi.
Dio non guarderà la zizzania ma il buon grano del campo.
Perché verità dell'uomo, della storia, di Dio è il bene. È il bene la vera grandezza della nostra fede. 
Poi però ci sono quelli condannati: “via da me... perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare”.
Poveretti! Ma quale è la loro colpa?
Non è detto che abbiano fatto del male ai poveri, non li hanno aggrediti, umiliati, cacciati, semplicemente non hanno fatto nulla per loro.
Sono quelli che dicono: non tocca a me, non mi riguarda.
Sono gli uomini dell'indifferenza.
Quelli che non sanno che cosa rispondere alla grave domanda di Dio a Caino: “che cosa hai fatto di tuo fratello?”.
Se ci pensiamo bene, il giudizio di Dio non farà che ratificare la nostra scelta di vita!
Non è Lui che ci giudica. Lui prende atto delle nostre scelte e del come abbiamo consumato la vita terrena.
Lui si limita a dire “Via, lontano da me, perché hai scelto tu di stare lontano da me che sono nei poveri”.
Forse allora capisco perché mi fa paura quel giudizio.
Più che di Dio e del suo giudizio, dovrei prendermi cura del mio giudizio e delle mie scelte di vita.
Allora capisco che il cristianesimo non si riduce semplicemente a fare del bene, è accogliere Dio nella mia vita, entrare io nella vita di Dio: l'avete fatto a me!
La paura lascerà il posto alla tranquillità quando i poveri entrano nella mia vita, perché è Dio stesso che vi entra e dove c’é Lui non può che esserci serenità!
Bello sarà quando ci limiteremo a giudicare meno gli altri pensando più a noi stessi. Del resto dobbiamo sempre ricordarci che quando, con la nostra mano puntiamo un dito verso qualcuno, altri tre restano puntati verso di noi!

12 novembre 2011

La parabola dei talenti, patrimoniale inclusa

Con tante scuse all’evangelista Matteo.

HO TROVATO IN INTERNET QUESTA SORTA ATTUALE DI PARAFRASI DEL VANGELO GIA' COMMENTATO... MI FA PIACERE CONDIVIDERLO CON VOI ... eventualmente, commentate

Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Quello che ne aveva ricevuti due, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, lo sperperò al gioco e con le donne.

Dopo molto tempo venne a trovarli il ministro dell’Economia, il quale chiese a ciascuno di essi: “quanto possiedi, e quanto hai guadagnato, figliuolo?”. Il primo servo disse: “possiedo un capitale di cinque talenti e nel corrente anno fiscale ho prodotto un reddito di altri cinque”. Il secondo servo disse: “possiedo un capitale di due talenti ma non ho avuto alcun reddito, per cui chiedo di essere ammesso ai benefici del welfare state”. Il terzo servo disse: “sono incapiente e non ho reddito, per cui chiedo di essere ammesso ai benefici del welfare state”.

Il ministro dell’Economia, raccolti i dati di cui aveva bisogno, tornò nella capitale e fece i suoi conti. Il servo coi cinque talenti aveva un reddito molto alto, ragion per cui ricevette di lì a poco una cartella esattoriale secondo cui egli doveva applicare l’aliquota marginale del 43 per cento, ossia doveva versare all’erario la somma di talenti 2,15. Al servo con un modesto patrimonio ma nessun reddito venne accreditato un salario minino di 1 talento, e al servo senza reddito nè patrimonio venne riconosciuto il massimo sostegno possibile del valore di 1,5 talenti.

A quel punto il ministro dell’Economia, soddisfatto di aver perseguito il massimo bene per il maggior numero di persone, trasse i bilanci e si rese conto che le spese, pari a 2,5 talenti, superavano le entrate, pari a 2,15 talenti. Esclamò: “questo disavanzo primario mi turba!”. E ancor più lo turbò apprendere che lo stock di debito pubblico, pari a 6 talenti ossia al 120 per cento del prodotto interno lordo, produceva un ulteriore aggravio di 0,3 talenti per il pagamento degli interessi passivi, che – date le precarie condizioni del paese – avevano un tasso medio del 5 per cento.
Allora il ministro dell’Economia tornò dai servi e tenne un accorato discorso: “servi – disse – il vostro sostentamento non è più possibile, poiché le attuali entrate fiscali di 2,15 talenti non sono sufficienti a compensare una spesa di 2,8 talenti. Per di più siamo a un tornante della storia: la speculazione internazionale ha aggredito il nostro debito pubblico, obbligandoci a rispettare decisioni prese da altri. E tuttavia, a fronte di un grande debito pubblico, nel nostro paese vià un grande risparmio privato. E’ giunto il momento in cui le linee rette diventano curve, e le curve si rettificano: per questo ho deciso di imporre un’imposta patrimoniale per dimezzare il debito pubblico. L’imposta dovrà fruttarmi almeno 3 talenti. Ciascuno di voi dovrà quindi pagarmi mediamente un talento”.

Disse il servo senza patrimonio né reddito: “signor ministro, la sua proposta è doverosa e giusta. C’è però un problema: il mio reddito, garantito dallo stato, è pari a 1,5 talenti, se dovessi pagare un tributo di un talento guadagnerei solo 0,5 talenti, al di sotto della soglia di povertà”. Disse il servo con un modesto patrimonio e un basso reddito: “signor ministro, la sua proposta è del tutto ragionevole, ma io ho un reddito di un solo talento: se dovessi pagare un tributo di un talento, per sopravvivere dovrei intaccare il mio risparmio privato, rendendo così il debito pubblico non più garantito”. Disse il servo più ricco: “signor ministro, io ho già dato il mio contributo a risanare il bilancio pubblico: ho infatti pagato 2,15 talenti all’erario, poco meno di quanto rimane a me. Come può chiedermi di contribuire ancora?”. “E tuttavia – s’intromise il servo povero – non possiamo ignorare la grave piaga che affligge la nostra società: la disuguaglianza. Infatti, un terzo della popolazione ha un reddito superiore alla somma degli altri due terzi, e possiede il 70 per cento delle ricchezze”. Avendo ascoltato tutti, il ministro dell’Economia disse: “ho preso la mia decisione. Servo povero, tu vivi già nell’indigenza e non posso gravarti ulteriormente. Ceto medio, tu rappresenti la mia base elettorale e troppe volte hai pagato per garantire gli agi e i vizi delle classi più agiate. Servo ricco: i tuoi argomenti non mi convincono. Contrastano infatti col più basilare principio dell’equità fiscale, secondo cui i soldi bisogna prenderli da chi li ha, perché chi non li ha, non li ha; e contrastano anche coi tuoi obblighi di solidarietà sociale, per cui chi lavora deve mantenere chi non lavora. Infine, mi permetto di farti notare che la stragrande maggioranza del popolo supporta la mia proposta, che coincide nell’imporre una patrimoniale straordinaria sul terzo più ricco della popolazione. Quindi, se tu ti opponi sarai considerato un nemico della democrazia e condannato ai lavori forzati”. Soddisfatto, il ministro se ne andò.

Di lì a poco, il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto un talento, ne presentò 1,5, dicendo: “Signore, mi hai consegnato un solo talento; ecco, ne ho guadagnato un altro mezzo”. “Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnato un altro, e un rendimento del 50 per cento in tempo di crisi non è poco”. “Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.

Venuto infine colui che aveva ricevuto cinque talenti, disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ebbene, io misi a frutto i cinque talenti che mi hai dato, e ne ho guadagnati altri cinque. Poi però, tra tassazione ordinaria e straordinaria, ho dovuto pagare 5,15 talenti, per cui te ne restituisco solo 4,85”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto investire il mio denaro e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse; invece tu solo, che eri il mio prediletto, hai estratto un rendimento negativo dal mio capitale. Toglietegli dunque i talenti che gli restano, e dateli a chi ha fatto fruttare ciò che aveva ricevuto. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.

13 Novembre 2011 - XXXIII Tempo ord/A

“Un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità, e partì.
Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subito a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò, e volle regolare i conti con loro. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque. Bene, servo buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.
Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due. Bene, servo buono e fedele, gli rispose il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone.
Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; per paura andai a nascondere il talento sotterra: ecco qui il tuo. Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.

 

Il Talento! Quante volte abbiamo sentito commenti su questa pagina!
Nel linguaggio corrente è accettato questo termine per indicare le capacità che uno può avere. La predisposizione naturale per una cosa piuttosto che un'altra, viene definita “talento”: “che bravo mio nipote, ha proprio talento per certe cose” mi sembra sentir dire la nonna di turno…
Leggendo con calma il testo scopriamo che “talento” non è solo un dono che abbiamo ricevuto per il bene comune, come ci verrebbe subito da pensare, ma un dono prezioso del Signore. Un regalo, quindi, che Dio fa a ciascuno e che ciascuno è chiamato a far fruttare secondo le proprie capacità. Capacità che già possediamo.
Il padrone si fida dei servi, non dice come e cosa devono fare per far fruttare il talento, sarà la loro capacità operosa a farli fruttare.
Talento che, ricordiamocelo, è un grande dono!
Per avere un ordine di grandezza, un talento corrisponde a vent’anni di lavoro di un operaio, quindi fra centocinquanta e duecentomila euro!
Al primo servo viene consegnata la strabiliante cifra di 1,2 milioni di euro! Un bel gruzzolo da farci un bell’investimento!
E così accade: i primi due servi fanno fruttare il talento, raddoppiandone il valore.
Il terzo servo, invece, viene duramente punito, in maniera esagerata: Dio si comporta con lui come lui immagina che sia Dio.
Il fedele che si immagina Dio come un orribile mostro fa di Dio un’esperienza orribile.
Se non convertiamo il nostro cuore alla novità del vangelo, alla fiducia di un Dio che ci consegna suoi tesori, fidandosi di noi, non faremo che crescere in un’idea di lui piccina piccina e molto sconfortante.
Troppo spesso - ancora oggi - Dio assomiglia alle nostre proiezioni, al Dio giudice severo che mi controlla e mi fa tribolare.
Troppi cristiani ancora oggi, credono a un Dio che premia solo i più bravi, i più buoni e i più rispettosi delle “regole, pronto a punire gli altri! Ma non è così.
Una fede fondata sulla paura non da nessun frutto.
Il padrone della parabola, replica al servo in modo energico e stizzito, avrebbe potuto almeno dare il talento ad una banca (la comunità?) che lo avrebbe fatto rendere.
Il dramma, invece, è che alcuni servi, alcuni discepoli, pur avendo ricevuto un grande tesoro, non lo fanno fruttare ed ostacolano anche chi lo farebbe fruttare.
Quant’è vero…
Quante potenzialità perse. Quante persone che non si mettono in gioco, che si privano della loro realizzazione di vita, limitando anche quella degli altri.
Il problema sta proprio qui: ogni chiusura, ogni egoismo e ogni “pensare per sé, preclude anche il benessere comune. L’uomo -ogni uomo - deve ricordarsi che il proprio destino è legato a quello degli altri. Ogni scelta di vita è legatissima a quella degli altri.
L’uomo non si salva da solo, chiuso nelle proprie paure.
L’uomo si salva dall’agire comune, dalla condivisione, dall’assunzione di responsabilità.
L’uomo si salva se saprà mettere a disposizione del Signore e quindi di ogni uomo, nella vita attiva della Comunità, ogni “talento” offerto crescerà e farà crescere così armonia, prosperità e benessere.
In un tempo di paure e incertezze, fidiamoci dell’unica saldezza che ci viene offerta: Colui che era, è e sarà sempre il Tutto di tutto!

5 novembre 2011

Domenica 6 novembre 2011 - XXXII dom A

DIO E' UNA VOCE CHE RISVEGLIA


In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l'olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l'olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po' del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. Ora, mentre quelle andavano a comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora».

Ecco lo sposo!
Andategli incontro!

In queste parole trovo l'immagine più bella dell'esistenza umana, rappresentata come un uscire e un andare incontro.
Uscire dai spazi chiusi e, nella notte, lo splendore di un abbraccio.
Dio come un abbraccio.
L'esistenza come un uscire incontro.
Fin da quando usciamo dal grembo della madre e andiamo incontro alla vita, fino al giorno in cui usciamo dalla vita per incontrare la nostra vita, nascosta in Dio.

Il secondo elemento importante della parabola è la luce: il Regno di Dio è simile a dieci ragazze armate solo di un po' di luce, di quasi niente, del coraggio sufficiente per il primo passo.
Il regno di Dio è simile a dieci piccole luci, anche se intorno è notte.
Simile a qualche seme nella terra, a una manciata di stelle nel cielo, a un pizzico di lievito nella pasta.
Ma sorge un problema: cinque ragazze sono sagge, hanno portato dell'olio, saranno custodi della luce; cinque sono stolte, hanno un vaso vuoto, una vita vuota, presto spenta.
Gesù non spiega che cosa sia l'olio delle lampade.
Sappiamo però che ha a che fare con la luce e col fuoco: in fondo, è saper bruciare per qualcosa o per Qualcuno.
L'alternativa centrale è tra vivere accesi o vivere spenti.
Dateci un po' del vostro olio perché le nostre lampade si spengono... la risposta è dura: no, perché non venga a mancare a noi e a voi.
Il senso profondo di queste parole è un richiamo alla responsabilità: un altro non può amare al posto mio, essere buono o onesto al posto mio, desiderare Dio per me.
Se io non sono responsabile di me stesso, chi lo sarà per me?
Parabola esigente e consolante.
Tutte si addormentano, sagge e stolte, ed è la nostra storia: tutti ci siamo stancati, forse abbiamo mollato. Ma nel momento più nero, qualcosa, una voce, una parola, una persona, ci ha risvegliato. La nostra vera forza sta nella certezza che la voce di Dio verrà.
Quella voce, che non mancherà, verrà a ridestare da tutti gli sconforti.
È quella voce che mi rialza dicendo che di me non è stanca. Che disegna un mondo colmo di incontri e di luci.
Dio non ci coglie in flagrante, è una voce che ci risveglia, ogni volta, anche nel buio più fitto, per mille strade.
A me basterà avere un cuore che ascolta, ravvivarlo come una lampada, e uscire incontro a un abbraccio.

(E. Ronchi)

A VOLTE CI LAMENTIAMO DI TUTTO, MA...

CI SIA DI AIUTO LA TESTIMONIANZA CHE PUBBLICO VOLENTIERI, APPARSA IN AVVENIRE DEL 5 NOVEMBRE 2011.

L'ALTRO SPORT


Storia di Isa: «Una pistola mi fa vivere»



«Dai Isabella che manca poco all’arrivo...», gli urlano per incitarla i maratoneti dell’ottava Marcia della Pace Betlemme-Gerusalemme organizzata dal Centro Sportivo Italiano e l’Orp (Opera romana pellegrinaggi). Ultime bracciate alla ruota della carrozzina di «Isa». Da dietro, la spinta sudata e amorevole di suo marito, Alberto. Ed eccolo là, il traguardo di Notre Dame. Isabella ce l’ha fatta ancora. Il volto paonazzo, accaldato per i 30 gradi del sole che brucia in Terrasanta e per quegli interminabili 12 chilometri vissuti con il cuore in gola, ma con una gioia sconfinata per aver condiviso un momento storico insieme a palestinesi e israeliani, uniti al grido incessante di “Pace, Pace”. «Che emozione ragazzi... - dice Isabella - . Se sono arrivata fin qui devo dire grazie a quell’uomo speciale che è padre Caesar Atuire (amministratore delegato dell’Orp). È una sensazione incredibile aver tagliato il traguardo. Padre Caesar, per qualche chilometro si è seduto addirittura sopra le mie gambe...». Isabella sorride divertita, «perché questa è una delle più belle giornate della mia vita. Ringrazio Dio e tutti quelli che mi vogliono bene per avermi fatto arrivare fino a Gerusalemme». Lacrime calde e sincere, scendono dagli occhi degli altri maratoneti che l’hanno accompagnata in questa ennesima sfida. Sì perché Isabella Vicanò è una donna di 43 anni alla quale a 26 venne diagnosticata una distonia muscolare. Otto anni passati da un ospedale all’altro: terapie, dolore, rabbia e speranza, prima di finire su una sedia a rotelle. Ma Isabella è forte come una leonessa: è la mamma di Anastasia 19 anni e di Valerio 13, che è nato quando la malattia aveva già sferrato i primi terribili colpi ai suoi muscoli. «Mi avevano sconsigliato la gravidanza e invece Valerio è nato sano e libero. Con Anastasia spesso mi dicono: “Non ti preoccupare mamma, da piccoli eri tu che spingevi i nostri passeggini, adesso tocca a noi farlo con la tua carrozzina”. Sono i miei tesori». Sono i suoi angeli custodi, assieme al marito Alberto che con i malati e la sofferenza della gente ci lavora tutti i giorni al 118 di Valmontone. «Alberto è un compagno di vita meraviglioso. Ho conosciuto tante donne finite sulla carrozzina come me che poi sono state abbandonate dai mariti. Alberto invece non passa giorno che mi ripete: “Io Isabè ti amo molto di più di quando stavi bene”». Si commuove mentre ripete le parole d’amore del marito. Lo fa in romanesco.
Isabella è di Valmontone, ma vive ad Artena a 50 chilometri dalla capitale. «Abitiamo in un condominio al quarto piano e stiamo senza ascensore. Non l’hanno voluto mettere. Abbiamo un mutuo da pagare e sinceramente 10mila euro da tirare fuori di tasca nostra per acquistarlo non ce l’abbiamo». Anche per fare sport Isabella si autofinanzia.
Ma lo fa con una passione contagiosa, specie da quando ha scoperto la sua disciplina: il tiro a segno. «Ho cominciato a sparare al poligono con mio marito. Poi il mio attuale allenatore, Paolo Damizia, ha visto che pur essendo una principiante e per di più in carrozzina, centravo un numero importante di bersagli e mi ha proposto di tornare. Uno sport violento per via della pistola? Assolutamente no. Una pistola invece di uccidermi mi ha salvato la vita, mi ha permesso di uscire di casa e di liberarmi da quella “cella di isolamento” in cui in genere si imprigiona ogni disabile con la propria famiglia». Una libertà che la Vicanò assapora pienamente il mercoledì: sveglia alle 7,30 e con Paolo fino a Roma, al poligono di Tor di Quinto. «Ci alleniamo scrupolosamente, poi c’è il pranzo con gli altri atleti. Insomma una festa». E Isabella fa festa anche quando gareggia. Ad Alicante alla World Cup per disabili ha vinto la medaglia d’argento, vicecampionessa del mondo con 360 centri. E a Milano ha appena conquistato il titolo italiano nella specialità pistola ad aria compressa con 363 bersagli colpiti. «I suoi numeri sono 525 nella Pistola Libera e 341 nella P5», sottolinea il suo allenatore che guarda con ottimismo alle Paralimpiadi di Londra 2012. «Io la carta olimpica ce l’ho già, me la sono guadagnata con il secondo posto ai Mondiali», dice Isabella con orgoglio e la solita grinta che le sta facendo affrontare l’ennesimo ostacolo che si è parato sul suo cammino. «Mi hanno trovato un tumore al seno. Anzi appena finisce questa nostra chiacchierata devo salire in camera a fare la chemio».
Lo dice con il solito sorriso negli occhi, quello con cui ogni mattina abbraccia i colleghi e il suo capo, Massimiliano Petrichella, «che non smetterò mai di ringraziare per avermi assunta, ma soprattutto per il suo grande sostegno morale». Riconoscenza e umiltà di una donna e di una sportiva che si aggrappa continuamente alla fede. «Senza l’aiuto di Dio come avrei fatto a Betlemme a scendere fin là sotto nella Chiesa della Natività? Grazie a Francesco ci sono riuscita e lì mi ha unto con l’olio santo rispondendo alla mia incredulità: “Isa, Dio vuole così”. Con «l’aiuto da Lassù», Isabella vuole arrivare ai Giochi di Londra e magari continuare a partecipare ad altre maratone come questa in Terra Santa: «Basta solo che qualcuno mi spinga. Magari qui potrei tornarci l’anno prossimo con i miei figli...». Isabella non molla, ha forza e coraggio da vendere, come quando si lancia in “tandem” con il paracadute con il suo Alberto che è un esperto della caduta libera. «Ci lanciavamo spesso con Pietro Taricone, un amico e un ragazzo sensibilissimo che ora ci manca tanto», racconta Isabella che nel mondo dello sport ha un solo idolo che vorrebbe tanto conoscere: Alex Zanardi. «Credo che la storia di Zanardi sia d’esempio per tutti, non solo per noi disabili. Gli ho chiesto l’amicizia su Facebook, ma vorrei tanto conoscerlo di persona e chiedergli se è possibile partecipare in qualche maniera alle sue attività sportive. Io, come Alex, nonostante tutto, mi sento una persona fortunata. Quando hai una famiglia meravigliosa, una fede incrollabile e uno sport che ami, la vita è ancora bella».