22 dicembre 2011

Andiamo a Betlemme (d.Tonino Bello)

NATALE 2011: piedi, mani, occhi e ... cuore!

Squilla il cellulare. Mia nipote. Rispondo. “Ciao zio, sto preparando il questionario dell’Istat per casa, ma questi vogliono sapere un sacco di cose ... ” Che posso fare? Nulla, se non mettermi tranquillamente seduto e collaborare!
Mentre rispondo, penso a quell’anonimo araldo romano a cavallo, sceso da Gerusalemme “in una città della Galilea di nome Nàzaret” ad annunciare l’ordine dell’imperatore Cesare Augusto che aveva indetto un nuovo censimento.
Ogni tanto, le autorità decretavano la realizzazione di censimenti nelle regioni del loro vasto impero. Servivano per registrare la popolazione e sapere quanto ogni persona doveva pagare di tasse. I ricchi pagavano l´imposta della terra e dei beni che possedevano. I poveri pagavano per il numero di figli. A volte la tassa superava il 50% del reddito delle persone.
Posso immaginare la rabbia della gente, semplice e povera, nel dover soccombere al desiderio dei potenti.
Non credo che neanche Giuseppe fosse esente da tale legittimo sentimento, tanto più che lui, discendente di un antico casato blasonato della discendenza di Davide, doveva andare a registrarsi a Betllemme!
Betlemme non era proprio fuori dalla porta di casa, bensi a più di 100 km a sud, nella regione della Giudea.
Giuseppe era preoccupato dello stato di salute della sua dolce Maria, ma non aveva alternativa, doveva partire e non poteva farlo da solo.
Raccolte le poche cose utili, fatta salire Maria con il suo bel pancione sull’asino, partono!
Il viaggio, con le sue continue difficoltà e insidie, sicuramente non ha favorito gli ultimi giorni di gravidanza della giovane madre. Superata Gerusalemme arrivano a Betlemme e ... anche pure le doglie.
Il tempo stringe, ma un alloggio non si trova. Forse si saranno anche sentiti dire “chi tardi arriva, male alloggia”. Il guaio è che, non è che alloggino male ma non lo trovano proprio!
Nel suo Vangelo, Luca liquida questo aspetto quasi in modo sbrigativo “per loro non c’era posto nell’alloggio”. Sembra quasi che Gesù per venire al mondo, non conosce la corsia preferenziale.
Sicuramente un’animo generoso impietositosi dei due, offre loro un riparo in quella che oggi potrebbe essere definita la casetta di campagna, dove trovano riparo gli attrezzi per i campi e gli animali.
Mentre Maria si contorceva nel dolore più antico del mondo, foriero comunque di vita, Giuseppe prega e alza gli occhi al cielo. Si accorge di una stella più luminosa delle altre e, solo allora si ricorda che è la stessa che luceva nelle lunghe notti insonni dei giorni precedenti, facendo capolino ai suoi pensieri.
In preda al panico, Giuseppe chiede al cielo di assisterlo. Mai avrebbe pensato di doversi improvvisare ostetrico. In quella situazione così precaria, tra l’altro!
Maria tra sudore, dolore e apprensione ormai è pronta a far vedere la luce a quel bambino gelosamente custodito nel grembo per lunghi nove mesi.
Sistemato un telo, dopo aver cercato dell’acqua, Giuseppe è li ai piedi di Maria.
Il bambino Gesù esce dallo scrigno preziozo del grembo materno e fa sentire subito il suo primo vagito! La terra ode la voce di Dio!
Il bambino-Dio apre i suoi occhietti e la prima cosa che vede sono le grandi mani di Giuseppe che lo accoglie. Mani sudate e tremolanti, data la gravità del momento. Le mani assuefatte a gesti duri e precisi di un lavoro pesante, ora diventano la prima culla accogliente del Dio in terra.
Eccolo lì l’Emmanuele, il Dio con noi, accolto da paterne mani terrene e delicatamente offerto alle mani e braccia della madre. Lei ancora avvolta dagli ultimi residui del dolore, riscopre il sorriso e come d’incanto tutto sembra più leggero e piacevole.
Gesù, avvolto dal calore della mamma, apre i suoi occhietti e, dopo aver visto le grandi mani del papà, incontra ora la dolcezza degli occhi della mamma.
Un incrocio di sguardi che per più di trent’anni saranno forieri di profonda intesa e scambio d’amore.
Gli occhi di Maria diventano luminosi al vedere lo splendore del suo bambino.
Qui è proprio di splendore che si tratta, la bellezza racchiusa nei cieli da sempre, è scesa finalmente sulla terra.
Un buon napoletano direbbe “Ogne scarrafone è bell’a mamma soja” (Ogni bambino è bello agli occhi della mamma), ma qui ci troviamo di fronte sicuramente ad una bellezza che non ha eguali.
La bellezza di questo bambino è tutto ciò che esso racchiude, il suo esserer Dio!
Gesù, accolto dalle incallite mani di Giuseppe, delicatamente posto nel grembo di Maria, ora riceve vita piena anche dallo sguardo penetrante di un’adolescente diventata Madre.
“Gli occhi sono lo specchio dell’anima”, dice qualcuno, allora quelli di Maria devono essere stati straordinariamente stupenti!
Le contrazioni al volto per le doglie del parto, lasciano il posto ai lineamenti dolci di quella donna che ora regala ai suoi uomini, orgogliosamente, un dolce sorriso.
Il sorriso che annienta il dolore, la fatica, la paura... Il sorriso che dimentica il male e favorisce la pace, la concordia, l’armonia.
“Donare un sorriso
rende felice il cuore:
arricchisce lo riceve
senza impoverire chi lo dona.
Non dura che un istante
ma il suo ricordo rimane a lungo.
Nessuno è così ricco
da non poterne fare a meno
nè così povero da non poterlo donare.
Il sorriso crea gioia in famiglia
dà sostegno nel lavoro
ed è segno tangibile d’amicizia.
Un sorriso dona sollievo a chi è stanco,
rinnova il coraggio nelle prove
e nella tristezza è medicina.
E se incontri chi non te lo offre,
sii genereso e porgigli il tuo:
nessuno ha tanto bisogno di un sorriso
come colui che non sa darlo.”
Ecco il nostro Dio!
Un bambino cresciuto in un ventre di donna. Accolto da mani d’uomo semplice e laborioso.
Nasce in un posto sconosciuto agli occhi degli uomini, ma illuminato da quelli fecondi della mamma.
Ecco il nostro Dio!

Un bambino dal suo delicato vagire e da un sorriso che trasforma la vita.
Ecco il nostro Dio!
Un bambino che chiede di nascere in noi.
Che cerca le nostre mani, i nostri occhi e il nostro sorriso.
Ecco il nostro Dio!
Se all’inizio dell’Avvento parlavamo dell’importanza dei piedi per andare, ora possiamo essere giunti al luogo indicato dalla stella.
Sta a noi collocarci al posto giusto. Lui viene!
Cerca una casa. Cerca un cuore!
e... tutto non sarà più come prima.

Buon Natale
fedeli amici lettori.

18 dicembre 2011

Quando manca l'energia elettrica...


NATALE AL GUSTO
DELL’ACQUA E DEL FUOCO

Venerdì 16 dicembre. Apro gli occhi, è giorno, ma la radiosveglia non ha dato nessun segno di vita e ancora non segna l’ora. Cerco di accendere la luce e, sorpresa, non c’è energia elettrica! Dopo le verifiche di rito vengo a sapere da un paio di telefonate che tutto tornerà alla normalità verso sera! … Ahiò, una giornata senza “luce”.
Fin qua niente male, ne approfitto per leggere e scrivere, ma – ahimè – il computer è scarico, il riscaldamento non funziona, l’acqua non può essere pompata, il cellulare ha la batteria scarica e, il cancello non si può aprire! Fuori, nuvoloni neri danzano nel cielo impendendo anche un minimo di luce accettabile in casa.
Sembra banale, ma vale il detto che quando una cosa ti manca ne comprendi il valore!
Prigioniero in casa, decido di andare al ristorante di amici dove, grazie al gruppo elettrogeno tutto sembra normale. Zaino in spalla e … nel chilometro di cammino sulla statale che mi divide da loro, deve fare i conti con i bolidi che sfrecciano a pochi centimetri da me.
Penso a come si viveva anni fa quando non c’era la pressoché totale dipendenza dall’energia elettrica e a come si poteva vivere senza “la luce”, come comunemente chiamiamo la preziosa energia.
A segnare l’inesorabile andare della vita, come una preziosa clessidra, erano le azioni quotidiane volte a garantire una dignitosa e sobria sussistenza. Tutto era consequenziale e aveva il sapore di una sacra ritualità.
Il canto del gallo apriva la scena al nuovo giorno, quando il sole fa capolino per riscaldare e illuminare il mondo. Mentre a far spazio alle tenebre della notte, ci pensava lo stridire di qualche civetta dal bosco o il bubolare di un gufo … per molti, premonitore di disgrazie o eventi tristi e luttuosi.
Era l’ora del "filò", dello stare insieme, magari al caldo della stalla, tra racconti e preghiere. Quest’ultime venivano intensificate se la civetta o il gufo insistevano nel farsi sentire.
Mentre, aperto il rubinetto, mi accorgo che l’acqua piano piano diminuisce fino a sparire, rivedo, come ripescato dalla memoria, il vecchio pozzo di pietra.
Il pozzo stava lì, fuori casa e, appoggiato alla secolare e consumata pietra, stava l’antico secchio di ferro duramente provato dalle tante ammaccature, agganciato alla lunga catena che gli consentiva lo svolgere il suo prezioso servizio. L’acqua, finalmente portata in casa, veniva gelosamente custodita sopra l’antica pietra del “secquaio” dove la si poteva attingere con il grande mescolo, spesso agganciato alla catenella.
In casa intanto ci si adoperava per il rito dell’accensione del fuoco, nel camino o nelle vecchie stufe. Li terminava, dopo un lungo viaggio, il percorso di trasformazione di ciò che era un albero! Quanta fatica per avere quel ceppo di legno!
Oggi chiamano "filiera" tutto il processo di trasformazione. Un tempo era semplicemente ordinaria attività per tutti. Il taglio nel bosco, la pulizia della pianta, il tronco tagliato in lunghi pezzi, il trasporto a casa, il segare i tronchetti, spaccarla con la mannaia e infine … l’accatastamento! Impresa quest’ultima che richiedeva una particolare professionalità. E, finalmente, dopo il lungo tempo di riposo ed essicazione, la legna era pronta per trasformarsi in … fuoco.
Acqua e fuoco, preziosi elementi vitali per la vita di ogni giorno, erano garantiti dalla fatica del quotidiano, esenti dai moderni e, spesso pesanti, bollettini postali o RID bancari.
Mentre scrivo, guardo alle lampade del soffitto per vedere se l’energia è tornata. Nulla! Sento ancora il rumore del gruppo elettrogeno che garantisce il minimo uso e penso alla modernità dei giorni.
Quanto ci è stato regalato dalla crescita scientifica e dalla tecnologia! Quante immense possibilità abbiamo. Quanto ci è stata semplificata la vita. Eppure, tra tante possibilità è sufficiente un semplice guasto per ritrovarti impotente e prigioniero … a casa tua!
Ci dicono che il tempo di crisi che stiamo vivendo, prima o poi, ci metterà di fronte alla fragilità della potenza tecnologica ed economica che abbiamo raggiunto. Come tutti i giganti, anche il nostro opulento occidente, ha il suo “tallone d’Achille”. Ma questa si sa è la classica scoperta dell’acqua calda.
Qualcuno dice anche che la crisi è stata indotta, creata per riformulare un nuovo ordine economico e politico mondiale. Un sofisticato intrigo per cambiare il corso della storia. Ancora una volta si sente parlare, sempre sottovoce, di qualche regia occulta che manovra le sorti dell’umanità.
Non faccio fatica a pensarlo. Tutto può essere. Del resto chi si ricorda più dell’Aviaria di qualche anno fa? Virus misteriosamente diffuso in tutto il mondo che ha portato all’abbattimento di tutti i pollami di ogni angolo della terra. Poi si è scoperto che uno dei "potenti" del mondo (qui non dico di chi si tratta) ha rimpiazzato i mercati mondiali con gli animali dei suoi innumerevoli allevamenti.
Sono giustificato nel sospettare che qualcuno ci sta “usando”? Non penso a chi ha staccato l’energia elettrica stamattina, ma chi ci ha tolto ben altri preziosi “rubinetti”.
“Si salverà chi avrà un piccolo orto”, dice qualcuno. Io aggiungo, “si, ma bisogna saperlo anche lavorare” e forse il sapore della vita di un tempo, non ci appartiene proprio più.
Se è vero comunque che ogni crisi è benefica, ben venga questo Natale! Forse quest’anno più di altri possiamo capire e riscoprire … l’acqua e il fuoco.
Che "energia" riceveremo? ... semplicemente elettrica?

17 dicembre 2011

Sacrifici, segnali d’amore

Per accompagnarci nella riflessione di questi ultimi giorni di Avvento, propongo un articolo di fratel Enzo Bianchi pubblicato su La stampa dell'11 dicembre 2011... a voi i commenti ...


Sacrifici, segnali d’amore
 

Da anni, su queste colonne mi è parso doveroso e responsabile denunciare l’imbarbarimento e la crisi verso la quale andava la nostra società, dapprima a piccoli, poi a grandi passi.

 Nel frattempo è sopraggiunta la “crisi” economica – prima sottovalutata, poi tenuta nascosta o negata, infine esplosa in tutta la sua pesantezza – che però si è scoperta essere anche crisi etica, culturale. Il salmo 49, con la sua sapienza accumulata nei secoli, sottolinea come “l’uomo nel benessere non capisce, è come un animale...”.

Solo ora, ci stiamo incamminando verso la presa di coscienza che non è più possibile proseguire sulla strada percorsa nell’ultimo ventennio, che la mancanza di eguaglianza e di giustizia rende la nostra vita – che resta sempre “vita comune”, non foss’altro perché vissuta su una stessa terra – più difficile, meno sicura, più conflittuale, più barbara. Ci stiamo rendendo conto che il vivere con il mito idolatrico del “tutto e subito”, del “tutto ciò che è tecnicamente possibile va fatto” non ci garantisce un futuro buono, che il pensare solo all’oggi, solo a noi stessi come individui impoverisce la terra e fa aumentare il deserto, ci rende incapaci di lasciare alle nuove generazioni una “eredità” nel vero e nobile senso del termine.

Tuttavia oggi ci sembra di poter dire con convinzione, anche se senza alzare la voce, che si intravedono segni di speranza. Una speranza sostenuta da nuovi governanti che danno segni di voler essere “politici” nel vero senso della parola: uomini e donne al servizio della polis, della società con lo stile di chi, consapevole della sua responsabilità, non ostenta, non vuole apparire e cerca di parlare con parresia, con franchezza e sincerità, perseguendo il bene comune.

È in questo contesto che, nella comunicazione viva e fatta con tutta la sua persona da parte del ministro del Lavoro, abbiamo colto la verità della parola “sacrificio”: una commozione che ben ne ha mostrato la fatica, il costo, la necessità e la verità. Da tempo, per lo meno nel mondo occidentale, “sacrificio” non ha più l’accezione legata alla sua etimologia di impronta religiosa: “sacrum facere”, “rendere sacro” un oggetto o una realtà spostandola dalla dimensione profana a quella appartenente al divino attraverso un rito o un insieme di gesti che arrivavano fino all’offerta – “sacrificale”, appunto – di una vittima per ingraziarsi gli dèi o placarne l’ira. Il “capro espiatorio”, così finemente analizzato anche nella sua dimensione fondativa di una cultura, ha lasciato il posto a “sacrifici” meno cruenti ma più quotidiani, legati comunque alla faticosa ricerca di una vita “migliore”.

Così la mia generazione, cresciuta in un’epoca ancora di cristianità, è stata educata umanamente e cristianamente a “fare sacrifici”: privarci di alcune cose, rinunciare ad altre, accontentarci di quello che c’era... Del resto, negli anni dell’immediato dopoguerra, in cui molti vivevano in condizione di fame e miseria, “fare sacrifici” per molti non era un’opzione, ma la condizione toccata loro in sorte. Ma quell’invito ossessionante alla privazione, sovente svuotato di ogni motivazione e slegato dalla possibilità di vederne i frutti, creò di fatto una reazione di rigetto: nessuno volle più sentir parlare di sacrifici, né tanto meno continuare a farli, soprattutto nell’ora del boom economico.

In questo senso la mia generazione ha una responsabilità nella mancata trasmissione alle generazioni successive del valore del sacrificio. E oggi, incapaci come siamo stati di comunicare la valenza umanizzante dello sforzo e della rinuncia, ci ritroviamo tutti in una cultura impossibilitata a intravedere un orizzonte di bene comune e di speranza, abbiamo assistito al rarefarsi di persone pronte a dedicare tempo, mezzi, energie, beni per una maggiore umanizzazione, per la crescita di una convivenza pacifica, per l’affermazione di valori e principi degni dell’uomo o, ancor più semplicemente, per preparare un futuro migliore per i propri figli. Mancanza davvero grave, perché il sacrificio è una co  sa seria: significa privarsi di un bene, astenersi da una possibilità in vista di un bene più grande che, se è tale, riguarda tutti, concerne la communitas e non il mio interesse personale. Spendere le proprie energie, fino al gesto estremo di sacrificare la vita stessa è possibile e doveroso se con quel sacrificio si ottiene giustizia, pace, libertà: quanti uomini e donne nella storia hanno sacrificato tempo, risorse, affetti per la realizzazione di ideali e per sconfiggere l’ingiustizia a beneficio di tutti.

Ma riscoprire il significato fecondo del sacrificio richiede un discernimento su azioni e comportamenti che da tempo abbiamo rinunciato a esercitare, assumendo senza alcuna criticità quello che il consumo, il mercato e la propaganda ci presentavano come stile di vita “normale”.

Così non sappiamo più distinguere tra necessario e superfluo, né riusciamo a mettere ordine nel nostro universo mentale e comportamentale tra bisogni, desideri, voglie, sogni e capricci. Si è come smarrita ogni scala di priorità: tutto pare sullo stesso piano, perché tutto attiene in positivo o in negativo al suo impatto sulle nostre sensazioni immediate. Noi abbiamo smarrito il senso della communitas tra contemporanei come di quella che ci lega con responsabilità alle generazioni future: vogliamo leggere, definire, vivere e consumare il nostro orizzonte limitandolo a un “io” narcisistico e prepotente o a un “noi” ristretto e fissato dal nostro vantaggio e non dalla realtà della polis.

Credo che questo smarrimento culturale ed etico abbia profondamente a che fare con l’affievolirsi del “senso” attribuibile ai “sacrifici”: se non ci sono principi condivisi, se non c’è un fine superiore alla momentanea soddisfazione personale, se non si percepisce alcun legame tra generazioni né responsabilità verso il futuro della collettività, sarà ben difficile rinunciare spontaneamente a qualcosa o aderire con convinzione a una rinuncia imposta dalle circostanze avverse. Se manca un orizzonte condiviso, se ogni atteggiamento è eticamente indifferente, se pretendiamo come diritto tutto ciò che è tecnicamente o economicamente possibile, allora ci troveremo impotenti di fronte a ogni avversità, le subiremo come catastrofi ineluttabili e cercheremo di sottrarci ad esse senza gli altri o addirittura contro di loro. Il sacrificio amputato della solidarietà, la rinuncia svuotata della speranza, il prezzo da pagare dissociato dal valore del bene da acquisire diventano insopportabili: nella communitas, infatti, il sacrificio è il debito che io liberamente assumo verso l’altro, altrimenti la communitas stessa cessa di esistere.

Solo un ideale altro e alto, la speranza di contribuire a un mondo migliore di quello che abbiamo conosciuto, la preoccupazione per il benessere di chi verrà dopo di noi, la solidarietà con chi, vicino o lontano da noi, non può accedere a beni essenziali che noi non ci rendiamo nemmeno più conto di possedere può spingerci non solo ad accettare i sacrifici ma ad affrontarli con consapevolezza e convinzione: quanti tra coloro che ci hanno preceduto avrebbero affrontato le difficoltà della vita se non avessero sperato di offrirci una condizione migliore? Perché il risultato del sacrificio non è il poterne fare finalmente a meno, bensì l’affermare con la propria vita quotidiana che un altro mondo è possibile, che l’uomo non è nemico dell’uomo e che vi sono principi di equità, di giustizia, di pace, di solidarietà che vale la pena vivere a qualunque prezzo: in fondo, il valore di ogni nostro desiderio è il prezzo che siamo disposti a pagare per raggiungerlo.

Davvero il sacrificio è iscritto nell’amore, perché nelle storie d’amore sempre accade che per il bene dell’altro io devo rinunciare a qualcosa che è solo a mio vantaggio, secondo il mio desiderio o capriccio. Allora, anche se il nostro faticoso lavorare il campo della vita non dovesse essere coronato dai frutti, ci resterà almeno la soddisfazione di aver dissodato il terreno perché altri, cui siamo legati dalla comune umanità, potranno trovarvi nutrimento e gioia.
Enzo Bianchi

15 dicembre 2011

Mi ha colpito molto la notizia e più ancora il commento di cammilleri, volentieri condivido con gli amici del blog... (fonte: http://www.labussolaquotidiana.it)

La scuola italiana? N'apocalisse...
di Rino Cammilleri
14-12-2011

Il fatto è questo: in ottobre una maestra con trent’anni di esperienza si è vista sollevare dall’incarico perché durante una lezione avrebbe turbato una bambina di prima elementare. È successo a Bologna (Il Resto del Carlino, 26 novembre 2011). La maestra in questione, insegnando religione cattolica, ha parlato del brano dell’Apocalisse in cui si tratta della caduta degli angeli ribelli e della punizione dei malvagi. E ha illustrato il tutto mostrando foto dei quadri di Guido Reni [nella foto], il famoso pittore seicentesco. Una bimba si è spaventata e l’ha detto alla mamma, la quale ha fatto un esposto al responsabile del circolo didattico competente.
Questo ha informato la Curia, e la maestra è stata sostituita. Ma lei non ci sta. Al suo fianco sono scesi i genitori degli altri bambini e perfino il deputato Fabio Garagnani (Pdl). La maestra sospesa ha informato perfino il Papa con lettera il 2 dicembre e dalla Segreteria di Stato vaticana (scrive Blitz Quotidiano, online, l’11 dicembre) le è stato risposto molto paternamente, con tanto di benedizione apostolica. Il che ha almeno rinfrancato la ricorrente, il cui cattolicesimo è stato rassicurato per quanto riguarda l’ortodossia (in tal senso, intervistata, avrebbe deposto). La cosa non finirà qui, anche perché il deputato di cui sopra intende dare battaglia. In effetti è una questione di principio.
Ora, solo gli interessati, come sempre in casi del genere, conoscono i dettagli della questione, nel cui merito non ci sentiamo di entrare. Sì, perché le cose della vita sono sempre più complicate di quel che i giornali riportano (tempus fugit e lo spazio è tiranno: ai giornalisti interessa solo "la notizia"). Può darsi che ci siano retroscena umani che non conosciamo (che so, invidie, ripicche tra colleghi, caratteri più o meno difficili, sensibilità più o meno marcate…). Può anche darsi che la maestra in questione abbia davvero esagerato. E può perfino darsi che ci siano di mezzo nuance laiciste, come sembrerebbe sostenere il deputato (dato il luogo in cui è avvenuto il fatto, Bologna, non ci stupirebbe).
Ma questa storia della povera bambina impressionabile ci lascia un po’ perplessi. Non c’è sera in cui l’annunciatrice televisiva non ci avvisi che il «programma è adatto a un pubblico adulto». E non è possibile che genitori normali riescano tutte le sante sere a cambiare in tempo canale. Per andare dove, poi? Da Fiorello che fa réclame ai preservativi senza che l’annunciatrice abbia preavvertito? E poi, Harry Potter e i vampiri di Twilight hanno forse il bollino rosso? Il pargolo odierno viene incoraggiato all’uso del computer e di internet, perché è bene che impari fin da piccolo. Cioè, si immette il cucciolo implume nella jungla e non di rado lo si lascia lì da solo, perché i genitori lavorano. Meglio le fiabe. Sì, in esse ci sono gli orchi che mangiano i bambini, le streghe che offrono mele avvelenate, i lupi che sbranano gli innocenti. Nemmeno i draghi di Christopher Paolini o di Licia Troisi sono zucchero filato senza calorie. Evidentemente la Madonna nel 1917 non aveva frequentato le scuole magistrali, altrimenti non avrebbe mostrato a tre pastorelli portoghesi (tutti minori) nientemeno che l’Inferno e le anime dannate. La maestra di Bologna ha illustrato una lezione che, in sé, ci pare lodevole: i cattivi sono sempre puniti, perché esiste un Aldilà di giustizia. Ci sembra una buona lezione. Specialmente per i bambini.

LO "SCHOK" DI MARIA - 4° DOMENICA DI AVVENTO

Come contributo per vivere l'ultima settimana di avvento, ripropongo una riflessione scritta un anno fa, come mi è stato richiesto da alcuni gentili lettori del blog.

LO “SHOCK” DI MARIA

Un’improvvisa chiamata interruppe la tranquilla passeggiata serale. Appena letto il “messaggio” un brivido s’impadronì del suo corpo: “Ti devo parlare, vieni da me. Dio”.
Di corsa si precipitò dal “capo”, come bonariamente chiamavano Dio, nei cortili del cielo.

“Ho una missione importante per te: domani alle quindici andrai a Nazareth e …”, poi non capì più nulla!

Mentre rientrava nei suoi passi, l’Arcangelo Gabriele pensava all’ordine impartito da Dio. La notte fu tormentata dal mix di pensieri ed emozioni. Si chiese ripetutamente “perché proprio io?”. Tra l’orgoglio di essere il prescelto e l’emozione di così grande missione, si consumò il tempo della notte per far posto al nuovo giorno. E che giorno!

Più tardi, una convenzione umana, avrebbe stabilito che si trattasse del 25 marzo. Giorno solenne. Giorno di gioia. Giorno gravido di semi del più grande sconvolgimento storico!

Gabriele, all’ora stabilita, raggiunge la meta e si presenta a Nazareth, villaggio di cui non aveva mai avuto conoscenza.
Lei stava lì, tranquilla, dedita ai lavori di casa più delicati, quelli che non impediscono alla mente di navigare. Maria, rapita dai pensieri, immaginava la sua vita. Pensava al suo oggi e al suo domani.

Oggi si direbbe di lei che era un adolescente. Al tempo, era donna da marito e lei già sapeva che il suo uomo sarebbe stato Giuseppe.

Giuseppe che nella stesura greca del vangelo di Matteo è il “téktón”, un titolo generico che veniva usato per operatori impegnati in attività economiche legate all'edilizia. Non si limitava quindi ai semplici lavori di un falegname ma esercitava piuttosto un mestiere usando materiale pesante che manteneva la durezza anche durante la lavorazione, come il legno o la pietra. Accanto alla traduzione di téktón inteso come carpentiere, alcuni hanno voluto accostare quella di scalpellino.

Lo scalpellino e il carpentiere sanno trasformare la materia. Da un tronco o da una pietra possono uscire forme angeliche piuttosto che travi di sostegno.
Pialla o scalpello che, colpo dopo colpo, trasformano l’immaginario in realtà.
Giuseppe è questo: artista e costruttore. Fantasioso e preciso. Gioioso e responsabile.

Maria sicuramente immaginava come sarebbe stata la sua vita accanto a quell’uomo, magari un po’ schivo, sicuramente buono, certamente timorato di Dio proprio come lei.

Un’irruzione improvvisa blocca i pensieri di Maria!
Il sangue è come gelato. Lo stomaco s’irrigidisce. Tremore e stupore prendono il sopravvento.
Come stabilito, il “messaggero di Dio” è davanti a lei. È Dio che entra nella storia.

Lei, sbigottita eppur curiosa, sperimenta che realmente Dio parla al suo popolo.

Ieri, oggi e sempre, Dio pone degli angeli nel cammino degli uomini.
Ogni giorno ha qualcosa da dire.
Mah, ahinoi, non sempre le cose vanno bene.
Povera distrazione degli uomini, incapaci di intercettare i messaggi, troppo spesso … rinviati al mittente!
Poveri “angeli”, mortificati nel non essere riconosciuti dai molti, che se ne ritornano a casa … con le ali basse.

Gabriele entrò da lei. Entrò in lei, nel suo cuore, nella sua mente, nella sua vita…
 “…disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te».

A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto.
L'angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».

Allora Maria disse all'angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo».

Le rispose l'angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell'Altissimo.
Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. [...]

Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto».

E l'angelo partì da lei.”  (Lc 1, 28b-38)

Maria rimane lì, stordita eppur cosciente, sconvolta eppur serena. Ora i suoi pensieri cambiano direzione. Ha bisogno di capire cos’è successo, avverte comunque come un albore del cuore che le svela una luce nuova.

Maria e un bambino-Dio che sta per prendere forma in lei. Il suo corpo diventa lo scrigno prezioso della presenza di Dio: il primo tabernacolo, il primo ostensorio della storia.

Maria pensa subito al suo Giuseppe: “e ora che ne sarà di noi?”.

12 dicembre 2011

LA "GUADALUPANA", OGGI IN MESSICO ...E NON SOLO


Nostra Signora di Guadalupe è l'appellativo con cui iccattolic venerano Maria in seguito a una presunta apparizione che sarebbe avvenuta in Messico  nel 1531.
Secondo il racconto tradizionale, Maria sarebbe apparsa a Juan Diego Cuauhtlatoatzin, un azteco convertito al cristianesimo, sulla collina del Tepeyac a nord di Città del Messico, più volte tra il 9 e il 12 dicembre 1531. Il nome Guadalupe sarebbe stato dettato da Maria stessa a Juan Diego: alcuni hanno ipotizzato che sia la trascrizione in spagnolo dell'espressione azteca Coatlaxopeuh, "colei che schiaccia il serpente" (cfr. Gn 3,14-15).
A memoria dell'apparizione, sul luogo fu subito eretta una cappella, sostituita dapprima nel 1557 da un'altra cappella più grande, e poi da un vero e proprio santuario consacrato nel 1622. Infine nel 1674 è stata inaugurata l'attuale Basilica di Nostra Siugnora di Guadalupe.
Nel santuario è conservato il mantello (tilmàtli) di Juan Diego, sul quale è raffigurata l'immagine di Maria, ritratta come una giovane indiana: per la sua pelle scura ella è chiamata dai fedeli Virgen morenita ("Vergine meticcia"). Nel 1921 Luciano Pèrez, un attentatore inviato dal governo, nascose una bomba in un mazzo di fiori posti ai piedi dell'altare; l'esplosione danneggiò la basilica, ma il mantello ed il vetro che lo proteggeva rimasero intatti.
L'apparizione di Guadalupe è stata riconosciuta dalla Chiesa cattolica e Juan Diego è stato proclamato  santo da papa Giovanni Paolo II il 31 luglio 2002. Secondo la dottrina cattolica queste apparizioni appartengono alla categoria delle rivelazioni private.
La Madonna di Guadalupe è venerata dai cattolici come patrona e regina del continente americano. La sua festa si celbrea il 12 dicembre, giorno dell'ultima apparizione. In Messico il 12 dicembre è festa di precetto.

11 dicembre 2011

PAROLA E COMMENTO DALLA TERRA SANTA

ANTICO EPPUR SEMPRE NUOVO...

CONDITOR ALME SIDERUM
Si tratta di un inno proprio della liturgia cristiano cattolica, recitato o cantato durante i Vespri della prima domenica di Avvento.
L'inno, di autore ignoto, risale al  VII secolo.
La revisione del Breviario romano, sancita dal papa Urbano VIII nel 1632, introdusse anche a questa preghiera significative modifiche, tanto che rimase inalterato un solo verso del testo originario, il secondo aeterna lux credentium. La versione riscritta assunse il titolo Creator alme siderum.
Emblematiche le variazioni introdotte nella terza strofa, dove venne eliminata l'immagine allegorica dello sposo che esce dal letto nuziale (sponsus de thalamo egressus), paragonata alla nascita di Gesù dal ventre purissimo della Vergine Madre (honestissima Virginis matris clausula).
Il testo originario del VII secolo è stato reintrodotto a seguito del Concilio Ecumenico Vaticano II.


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Conditor alme siderum - testo originarioTraduzione italiana

Cónditor alme síderum,
ætérna lux credéntium,
Christe, redémptor ómnium,
exáudi preces súpplicum.
Qui cóndolens intéritu
mortis períre sæculum,
salvásti mundum lánguidum,
donans reis remédium,
Vergénte mundi véspere,
uti sponsus de thálamo,
egréssus honestíssima
Vírginis matris cláusula.
Cuius forti poténtiæ
genu curvántur ómnia;
cæléstia, terréstria
nutu faténtur súbdita.
Te, Sancte, fide quæsumus,
ventúre iudex sæculi,
consérva nos in témpore
hostis a telo pérfidi.
Sit, Christe, rex piíssime,
tibi Patríque glória
cum Spíritu Paráclito,
in sempitérna sæcula. Amen.

Benigno Creatore degli astri,
eterna Luce dei credenti,
Cristo, redentore di tutti,
esaudisci le preghiere di chi ti supplica.
Tu compatendo il mondo
che andava in rovina nella morte,
salvasti l'umanità ammalata,
donando una cura ai peccatori,
Mentre scendeva la sera del mondo,
come uno sposo uscito dal letto nuziale,
(nascesti) dal castissimo
grembo della Vergine Madre.
Alla tua forte potenza
tutte le creature piegano il ginocchio;
quelle del cielo, quelle della terra
si mostrano sottomesse alla tua volontà.
Te, o Santo, con fede preghiamo,
tu, che verrai come giudice del mondo:
conservaci nel tempo
dalla lancia del perfido nemico.
O Cristo, re piissimo,
a te e al Padre sia gloria
con lo Spirito Paraclito
per i secoli eterni. Amen

10 dicembre 2011

...SOLO GIOIA

Se sei triste e ti rispondo che non devi essere triste,
se sei allegro e ti rispondo: "beato te che sei felice"
se mi dici che sei innamorato e ti rispondo che io mi sono appena lasciato...
In fondo in fondo non ti sto' ascoltando, in fondo in fondo sto' guardando solo me stessa e non mi interessa cio' che mi stai dicendo....
Se riesco ad ascoltarti veramente con il cuore, quando mi dirai che sei triste, la tua tristezza si alleggerira' me ne faro' carico un po' anch'io... e nel vedere che la tua tristezza si e' attenuata io non potro' far altro che accrescere la mia gioia.
Se riesco ad ascoltarti veramente con il cuore, quando mi dirai che sei felice, la tua felicita' non potra' far altro che accrescere la mia.
Se riuscissimo veramente ad ascoltarci, potremmo accrescere le nostre stesse gioie ed alleviare le nostre stesse sofferenze...

GIOIRE NELLA PROVA - 3° DI AVVENTO

I piedi si affrettano uno dopo l’altro a lasciare il segno sul marciapiede ricoperto dal natalizio tappeto rosso. Nello slalom, tra i numerosi passanti e le piante decorate, l’occhio punta alle luminose e ben decorate vetrine dei tanti negozi.
Non so se è suggestione o realtà, ma ho come l’impressione che siano vuoti. Del resto lo dicevano anche alla radio poco fa, che quest’anno si prospetta un Natale sottotono.
Il tema dominate dei discorsi ormai è monotono, si parla di crisi economica. Tutto è riconducibile al prodotto finale di uno stile di vita ch, dopo decenni, ormai volge al termine.
In questo bailame mondiale sembra che nessuno si sia accorto che a tutto c’è un limite! Che le risorse a disposizione dell’uomo, come frutto della sua intelligente organizzazione economica della vita sociale, non sono come il pozzo di S. Patrizio! Forse ci siamo dimenticati che dobbiamo pur sempre fare i conti anche con i limiti e le nostre fragilità.
Ancora una volta il Natale ci viene incontro e, quest’anno più che mai, ci ricorda l’essenzialità della vita. Non ci induce al pessimismo, quanto piuttosto si pone come stimolo a ripensare alla vita e agli … “stili” di vita.
Quest’anno dobbiamo fare i conti anche con la difficoltà del godere anche dei beni di prima necessità. “La prudenza non è mai troppa” dice da sempre qualcuno, forse ora ne capiamo meglio il significato.
Forse è il tempo prezioso per comprenderne il valore. O no?
In questa domenica della gioia, risuonano le antiche parole del profeta Isaia come attuale e incoraggiante invito alla fiducia e alla gioia!

Lo spirito del Signore Dio è su di me
perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione;
mi ha mandato a portare
il lieto annunzio ai poveri,
a fasciare le piaghe dei cuori spezzati,
a proclamare la libertà degli schiavi,
la scarcerazione dei prigionieri,
a promulgare l’anno di misericordia del Signore.
Io gioisco pienamente nel Signore,
la mia anima esulta nel mio Dio,
perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza,
mi ha avvolto con il manto della giustizia,
come uno sposo che si cinge il diadema
e come una sposa che si adorna di gioielli.
Poiché come la terra produce la vegetazione
e come un giardino fa germogliare i semi,
così il Signore Dio farà germogliare la giustizia
e la lode davanti a tutti i popoli. (Is 61...)
 
Se la logica del mondo ci mette di fronte ai limiti e alle false promesse di benessere diffuso a basso costo, la “Parola” ci sprona ad andare oltre!
Non possiamo più farcela se alla nostra mensa benestante non facciamo sedere anche i poveri.
Meglio ancora, non ce la faremo se non saremo invitati tutti a sederci alla mensa di chi detiene potere e ricchezza. O … che loro si siedano alla nostra!

Provo rabbia e impotenza, quando assisto alle lucide analisi televisive della triste e difficile situazione mondiale e non trovo nessuno che parla della vera grande crisi mondiale. Quella che nasce da un modello di sviluppo che privilegia i pochi ed esclude i molti.
Isaia sembra dirci che in mezzo a tanta disperazione (= mancanza di speranza) proposta dal mondo, entra in punta di piedi un Bambino-Dio a rincuorarci e ad’offrirci uno sguardo diverso con cui “leggere” la vita.
Si parla di gioia, ma di quale gioia?
Gioire, prima di tutto, non è una semplice emozione da vivere, quanto piuttosto il frutto di una operosa volontà fatta di gesti e di scelte per stabilire da che parte stare. Anche nelle difficoltà si può sorridere. Lo disse anche Dostoevskij “nel dolore la verità si fa più chiara”.
Per restare nella gioia ci deve essere una prospettiva diversa. Se la gioia per me è semplicemente possedere un qualcosa, qualunque ostacolo me lo può impedire e il desiderio si dissolve.
Se la gioia è riposta in Dio, lo sguardo è a tutto campo e soprattutto posso coltivare fiduciosamente la speranza, sapendo che mai sarò deluso.

La sfida è ancora aperta!
Dio si ri-propone a noi. Desidera entrare nelle pieghe sofferte della nostra storia per offrirci la gioia. E ci dice che la gioia è una presenza!
Possono sembrare le stesse cose ripetute da secoli, ma è Gesù la vera gioia.
Non è la dottrina su Gesù, quanto piuttosto la sua reale presenza nella vita di ciascun credente.

Una persona qualche giorno fa mi chiese come poter accogliere Gesù che viene. La risposta mi venne spontanea e immediata: camminando nella verità e nell’autenticità di ciò che siamo.
Chi sono io? Chi siamo noi?
Se seguiamo la logica commerciale che regge le sorti del mondo, io sono ciò che produco, ciò che consumo, ciò che appaio, ciò che conto, …
L’evangelista Giovanni sa che non è come la pensa il mondo, noi non siamo ciò che possediamo o consumiamo o facciamo.
Giovanni ha pensato e ha capito, egli è voce. Voce, voce prestata ad’una Parola. Voce che amplifica un’idea non sua, voce, che fa riecheggiare un’intuizione di cui anch’egli è debitore. Giovanni scrive:

E questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: “Chi sei tu?”.
Egli confessò e non negò, e confessò: “Io non sono il Cristo”.
Allora gli chiesero: “Che cosa dunque? Sei Elia?”.
Rispose: “Non lo sono”.
“Sei tu il profeta?”. Rispose: “No”.
Gli dissero dunque: “Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?”
Rispose: “Io sono voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia”. (Gv 1,...)

In attesa del Natale, chiediamoci pure “chi sono io?”.

Tu, cosa sei? Cosa dici di te stesso?
Forse sei pazienza, o attesa, o sorriso, o perdono, o sogno, o inquietudine.
Contrariamente alla falsa idea del cattolicesimo che mortifica e castra le ambizioni degli uomini (“Se Dio c’è io sono fregato”, pensa Erode), il Vangelo ci svela un Dio che ci aiuta a cogliere la verità di noi stessi.

Io sono creatura amata! Io sono la pupilla dell’occhio di Dio. Io sono il cuore di Dio. Io sono essenza eterna. Io sono il bene più prezioso che Dio possiede. Io sono unico e irripetibile. Io sono capace di speranza e amore. Io sono tutto questo solo se … lo voglio!
Il Bambino-Dio viene per offrirci questa possibilità, essere ciò che Dio ha voluto e vuole per me.


7 dicembre 2011

L'IMMACOLATA, L'EUROPA E NOI

Poi un grande segno apparve nel cielo:
una donna rivestita del sole,
con la luna sotto i piedi e
una corona di dodici stelle sul capo. (Ap 12,1)

Durante il dibattito sulla “Costituzione europea”, alcuni acuti osservatori hanno rilevato l’ironica “astuzia della Storia” rappresentata dal Vessillo europeo, invenzione di un pittore ispirato dalla devozione mariana.
La vicenda è stata tramandata in diverse versioni.
Oggi la “Costituzione europea” ripete solennemente che la bandiera europea è azzurra, con dodici stelle disposte a cerchio. Colori e simboli che risalgono alla devozione mariana, e sono un evidente omaggio alla Beata Vergine Maria, per oltre mille anni venerata come “Regina d’Europa” in tutto il Continente.
La Donna incoronata da dodici stelle (di cui parla il capitolo 12 dell’Apocalisse), per la tradizione cristiana è la madre di Gesù.
Lo stesso abbinamento dell'azzurro del cielo, con il bianco della purezza verginale, derivano dal culto mariano: infatti, il disegno del vessillo prevedeva originariamente delle stelle bianche - argento, che in un secondo momento sono diventate di colore giallo-oro.
Nel 1949 a Strasburgo fu costituito il primo embrione del “Consiglio d’Europa”; l'anno successivo venne indetto un concorso aperto agli artisti europei, per la scelta di una bandiera comune.
Partecipò al concorso anche il giovane e sconosciuto designer Arsène Heitz, che portava al collo la molto diffusa “Medaglia Miracolosa” (coniata in seguito alle visioni di santa Catherine Labouré) ed aveva una profonda devozione verso l'Immacolata Concezione.
Arsène Heitz disegnò il suo bozzetto con le dodici stelle in circolo su sfondo d’azzurro mariano, e ...vinse il concorso!
La commissione che doveva scegliere tra i diversi bozzetti era presieduta da un belga di religione ebraica che, non conoscendo le origini del simbolo, fu forse colpito dai suoi colori: l'azzurro e il bianco delle stelle del disegno originale, erano anche i colori del vessillo dello Stato d'Israele (costituito nel 1948) che s’ispirava allo scialle a strisce usato dagli ebrei per la preghiera.
Scrive Messori che, «in una prospettiva di fede, quest’unione di richiami cristiani ed ebraici è felicemente simbolica: la donna di Nazareth, in effetti, è la “Figlia di Sion” per eccellenza, è il legame tra Antico e Nuovo Testamento, è colei nel cui corpo si realizza l’attesa messianica.
Anche il numero delle stelle sembra collegare strettamente le due fedi: dodici sono i figli di Giacobbe e le tribù d’Israele e dodici gli apostoli di Gesù.
Dunque, il giudeo-cristianesimo che ha costruito il Continente è unito in uno stendardo».
Qualcuno obiettò che gli Stati membri erano sei, e che dunque non si giustificavano dodici stelle.
Pur non rivelando l’origine della sua ispirazione per non creare contrasti, Arsène Heitz convinse il Consiglio affermando che il dodici era “simbolo di pienezza”, e che il numero delle stelle non doveva essere mutato quando anche gli stati membri dell’Unione avessero superato quel numero.
Il disegno di Heitz fu finalmente adottato come bandiera d’Europa nel 1955 .
La seduta solenne durante la quale fu adottata la Bandiera europea, si tenne in un giorno determinato dagli impegni politici dei capi di Stato: stranamente era un 8 dicembre, la data in cui la Chiesa celebra la festa dell’Immacolata Concezione, … rappresentata dalla Medaglia che aveva ispirato la bandiera!