6 ottobre 2012

LA GRANDE STORIA: CONCILIO VATICANO II°

50 anni di storia della primavera della Chiesa.
Nel 1962 il Beato Giovanni XXIII apriva una stagione nuova della Chiesa con l'indizione del Concilio Vaticano II°.
La Rai ci ha offerto la sera del 4 ottobre un contributo straodinario e ben fatto per la serie di "La storia siamo noi".
Ve lo propongo... un bel regalo che ci si può fare con un pò di calma...
Copia e incolla:
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-85821fac-0ae1-46b9-b274-c369b30e208d.html

4 aprile 2012

Settimana Santa


“Quanto è splendido il digiuno
Che si adorna dell’amore
Spezza generoso il tuo pane con chi ha fame
Altrimenti il tuo non è digiuno, ma risparmio”


Con questo canto dal Vespro del martedì di Quaresima, la liturgia maronita, imbevuta della teologia dei padri siriaci, collega strettamente il digiuno con la carità. In un tempo in cui il digiuno per tanti è di fatto una forma di dieta, la Chiesa che insegna tramite la liturgia ricorda che il digiuno cristiano è molto più dell’astinenza dai cibi.

L’apostolo Paolo non ha dubbi sul fatto che la carità sia la corona delle virtù cristiane, e un digiuno non abbellito dallo splendore della carità è vano. E l’apostolo Giovanni chiarisce che la pietra di paragone della vera carità è la praticità e la concretezza, perciò esorta: «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità» (1 Gv 3,18).

La povertà ha diversi volti, e madre Teresa, che era tanto familiare con la povertà e la fame materiale, ha affermato un giorno che nel mondo occidentale – dove la gente sembra più ricca – vi è una fame più grande e una povertà più grave di quella che si riscontra nelle viuzze di Calcutta: è la povertà spirituale, la mancanza di senso e l’indigenza di chi ha rinunciato al suo Signore, fonte, senso e fine della nostra esistenza.

16 marzo 2012

CIO' CHE DIO VUOLE ! 18.03.2012 / 4° di Quaresima


Dal secondo libro delle Cronache
In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora.
Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni»…


Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».


Primavere
Quanto è difficile convertirsi! E credere nel Dio di Gesù!
Quanto è difficile scegliere da che parte stare, nella vita, sempre strattonati tra le troppe cose da fare, inquieti e rassegnati, travolti dalle mille preoccupazioni.
Ci è necessario il deserto, anche se minuscolo, anche se duramente conquistato ritagliando qualche minuto alle nostre giornate. Eppure abbiamo bisogno di tornare all'essenziale, proprio ora che le difficoltà crescono e la tentazione della sfiducia, anche nella Chiesa, diventa incombente.
Tenendo fisso lo sguardo sulla bellezza di Dio, intuita, assaporata, cercata, possiamo ribaltare i banchetti delle nostre approssimative e inconcludenti visioni di Dio per liberare il tempio del nostro cuore (e il tempio che è la Chiesa) da una visione mercanteggiata della fede.
È un percorso lungo, faticoso.
Ne sa qualcosa il libro delle Cronache, ne sa qualcosa Nicodemo.

Dio giudice
Ci è connaturale un'orribile visione di Dio. La portiamo nel cuore, nell'inconscio, nel vano tentativo di dare una parvenza di giustizia all'illogica dinamica di questo mondo.
Il cammino dell'uomo biblico è irto di difficoltà, di continue conversioni, di ragionamenti che avanzano nelle nebbie. Se Dio è buono, si chiede la Bibbia, da dove deriva il dolore?
In particolare, nel brano di oggi, l'autore ancora cerca una risposta alla brutale distruzione del tempio e alla successiva prigionia in Babilonia. Ed ecco la drammatica risposta: l'esilio è stata una punizione per non avere rispettato il ciclo sabbatico della natura: un anno ogni sette, per lasciare la terra al suo riposo. Dio, giudice giusto, ha ascoltato la lamentela del Creato: i settant'anni di esilio forzato del popolo ha ridato fiato alla natura.
È una visione semplicistica, eppure efficace: Dio punisce il peccato del popolo.
Ma già nell'Antico Testamento si è approfondito il tema capendo che non è Dio a punire, ma il peccato stesso.
Il peccato è male perché ci fa del male, il peccato distrugge, non Dio!
Eppure quanto connaturale ci è una visione così stringente.
Ci viene spontaneo pensare che se Dio è una carogna, tutto torna.
Ma, se invece, è come lo racconta Gesù, le cose si complicano?

Nicodemo
Gesù parla ad un combattuto Nicodemo che lo raggiunge durante la notte, per non farsi vedere. Ha una reputazione da difendere (che diamine!), ma è curioso. Lui è un credente, un membro del Sinedrio, sa bene di Dio e delle sue leggi. Nicodemo però non è convinto, cerca un volto di Dio diverso.
Gesù gli rivela qualcosa di inatteso e inaudito, ciò che nessuno mai aveva osato immaginare.
Gesù gli racconta il pensiero di Dio.

Ciò che Dio vuole
Dio non vuole una classe disciplinata di bravi ragazzi che obbediscono sorridendo. Dio vuole persone autentiche che sappiano mettersi in gioco, che accettino di crescere (non sempre questo significa migliorare!), che imparino a distinguere le proprie ombre, da adulti.
Gesù è chiarissimo: Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Dio vuole la salvezza, cioè la pienezza di vita per ogni uomo. E, per farlo, per manifestare la serietà del proprio amore, Gesù già parla del dono di sé totale, del mistero della croce. La croce che, come dice san Massimo il confessore, è il giudizio del giudizio.
Davanti alla possibilità di essere dei capolavori o delle fotocopie sbiadite, l'uomo è libero di scegliere. E sono le nostre scelte a giudicarci, possiamo vivere in un prolungato inverno, ostinandoci a dire che non esiste nessuna bella stagione e che, al massimo, noi sappiamo vestirci meglio degli altri.
Quando tutto è grigio è difficile vedere l'ombra dietro di sé.
Ma vivere una vita grigia è una non scelta di vita.
Dio vuole la nostra salvezza, ad ogni costo.
Nessun giudice, nessun preside, nessun vigile.
Solo un padre tenerissimo.

Ma
Il ragionamento implode.
Meglio un Dio che opera la giustizia, altro che.
Se Dio è buono perché il dolore innocente? Certo, la sofferenza, spesso, è frutto delle nostre scelte sbagliate o delle nostre fragilità. Ma come può Dio sopportare il dolore del bambino che muore di cancro? Come può sopportare la morte tragica di 22 bambini tra le lamiere di un pulman entro il buio di una galleria?
Non può.
Gesù, ad un attonito Nicodemo, indica un simbolo, quel serpente di bronzo innalzato da Mosè per guarire gli ebrei morsi dai serpenti. Anche lui, Gesù, sarà innalzato e salverà chi volgerà il proprio sguardo verso di lui.
Gesù già intravvede all'orizzonte la sconfitta del suo ministero, e vuole andare fino in fondo.
Dio è disposto a morire per salvare gli uomini, per salvare me.
Dio porta su di sé il dolore dell'innocente, lo assume, lo redime, lo salva.
Volgiamo lo sguardo alla croce, in questo deserto, alla misura senza misura dell'amore di Dio.
Ecco, questo è il Dio in cui crediamo.
(Paolo Curtaz)

3 marzo 2012

CANZONE di Lucio Dalla. Ciao Lucio e ... grazie. Ora goditi il cielo!

Non so aspettarti più di tanto
Ogni minuto mi dà
L'stinto di cucire il tempo
E di portarti di qua
Ho un materasso di parole
Scritte apposta per te
E ti direi spegni la luce
Che il cielo c'è
Star lontano da lei non si vive
Stare senza di lei mi uccide

Testa dura testa di rapa
Vorrei amarti anche qua
Nel cesso di una discoteca
O sopra il tavolo di un bar
O stare nudi in mezzo a un campo
A sentirsi addosso il vento
Io non chiedo più di tanto
Anche se muoio son contento

Star lontano da lei non si vive
Stare senza di lei mi uccide

Canzone cercala se puoi
dille che non mi perda mai
va' per le strade e tra la gente
diglielo veramente

Io i miei occhi dai tuoi occhi
Non li staccherei mai
E adesso anzi me li mangio
Tanto tu non lo sai
Occhi di mare senza scogli
Il mare sbatte su di me
Che ho sempre fatto solo sbagli
Ma uno sbaglio che cos'è

Stare lontano da lei non si vive
Stare senza di lei mi uccide

Canzone cercala se puoi
dille che non mi lasci mai
va' per le strade e tra la gente
diglielo dolcemente

E come lacrime la pioggia
Mi ricorda la tua faccia
Io la vedo in ogni goccia
Che mi cade sulla giacca

Stare lontano da lei non si vive
Stare senza di lei mi uccide

Canzone trovala se puoi
dille che l'amo e se lo vuoi
va' per le strade e tra la gente
diglielo veramente
non può restare indifferente
e se rimane indifferente
non è lei        

FINESTRE DI CIELO APERTE SUL REGNO - 4 marzo II di Quaresima / B

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l'amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro [...] (Marco 9, 2-1)   

Gesù porta i tre discepoli sopra un monte alto.
La montagna è la terra dove si posa il primo raggio di sole e indugia l'ultimo, la terra che si innalza nella luce, la più vicina al cielo, quella che Dio sceglie per parlare e rivelarsi.
Infatti, lassù appaiono Mosè ed Elia, gli unici che hanno veduto Dio.
E si trasfigurò davanti a loro.
Il Vangelo non evidenzia nessun particolare della trasfigurazione, se non quello delle vesti diventate splendenti. Ma se è così luminosa la materia degli abiti che coprono, quale non sarà lo splendore del corpo?
E se così è il corpo, cosa sarà del cuore?
È come quando il cuore è in festa e la festa si comunica al volto … e di festa sono anche i vestiti.
Pietro ne è sedotto, prende la parola: che bello essere qui! Facciamo tre capanne.
L'entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita - che bello! - ci fanno capire che la fede per essere pane, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un «che bello!» gridato a pieno cuore.
Ciò che seduce Pietro non è l'onnipotenza di Dio, non lo splendore del miracolo, il fascino dell'infinito, ma la bellezza del volto di Gesù.
Quel volto è il luogo dove è detto il cuore, il suo cuore di luce; dove l'uomo si sente finalmente a casa: stare qui, è bello!
Altrove siamo sempre lontani, in viaggio. Il nostro cuore è a casa solo accanto al Suo.
Il Vangelo della Trasfigurazione mette energia, dona ali alla nostra speranza: il male e il buio non vinceranno, non è questo il destino dell'uomo.
Alimenta un pregiudizio sulla bontà dell'uomo, un pre-giudizio positivo: Adamo (l’uomo) ha, o meglio, è una luce custodita in un guscio di creta. La sua vocazione è liberare la luce.
Avere fede è scoprire, insieme con Pietro, la bellezza del vivere, ridare gusto a ogni cosa che faccio, al mio svegliarmi al mattino, ai miei abbracci, al mio lavoro. Tutta la vita prende senso e si illumina.
Ma questo Vangelo ci porta una notizia ancora più bella: la trasfigurazione non è un evento che riguarda Gesù solo, al quale noi assistiamo da spettatori. È un evento che ci riguarda tutti, al quale possiamo e dobbiamo partecipare.
Il volto di Gesù sul monte è il volto ultimo dell'uomo, è il presente del futuro.
È come sbirciare per un attimo dentro il Regno, vederlo come una forza possente che preme sulla nostra vita, per trasformarci, per aprire finestre di cielo.
Il Vangelo di domenica scorsa chiedeva: convertiti. La conversione è come il movimento del girasole, questo girarsi verso la luce.
Il Vangelo di questa domenica offre il risultato: mi giro e trovo il sole, sono irradiato, mi illumino, mi imbevo e godo della luce, il simbolo primo di Dio.
                                                                                                              (Ermes Ronchi su Avvenire di giovedì 1 marzo 2012)

15 febbraio 2012

E tu lo chiami Dio - Eugenio Finardi

Vorrei volare ma non posso,
E resto fermo qua
Su questo piano che si chiama terra
Ma la terra si ferma…
Appena mi rendo conto
Di avere perso la metà del tempo
E quello che mi resta è di trovare un senso

Ma tu, sembri ridere di me,
Sembri ridere di me…

E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io non sono come te…
Ma conosco l’amore
Io, io che ho visto come te
Dritto in faccia il dolore…

Vorrei volare ma non posso
e spingermi più in là
Adesso che si fa silenzio attorno
Ma il silenzio mi parla…

Devo combattere con le mie lacrime,
mica con una poesia
E non c’è ordine nei letti d’ospedale
Come in una fotografia rivedo
dritta sulle spalle la mia figura….

E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io non sono come te…
E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io non sono come te…
Ma conosco l’amore
Io, che ho visto come te
Dritto in faccia il dolore…

E tu lo chiami Dio
Io non do mai nomi
A cose più grandi di me
Perché io, io sono come te…

13 febbraio 2012

Lo scarabocchio è l'altro nome della tenerezza - 12/02/2012 VI dom B

Nella sua spelonca, come un antico mago, Satana si divertì a scomporre il corpo dell'uomo nei suoi tessuti e nelle sue fibra, ne spiò ogni nervo, ne scrutò le ossa e le midolla; volle che un lembo del suo inferno si trapiantasse quaggiù nella nostra terra di vivi. Gli riuscì di trasformare la notte in un forno maledetto dove avvoltolarsi fino all'alba contando ore lunghe come secoli, volle che l'uomo si vedesse coperto giorno dopo giorno di bubboni e piaghe, che sentisse le proprie ossa trapassate di lance, frantumate da seghe, addentate da invisibili cani. Volle che l'uomo vedesse colare dalla propria pelle secrezioni immonde e ne percepisse il fetore. Il capolavoro è compiuto, "signore e signori ecco a voi il lebbroso": terra di confine tra il giardino della morte e la fatica del vivere umano, il cadavere ambulante, lo scomunicato per eccellenza. Perché quella pelle puzzolente e fetida tutti la riconosceranno, sin dai primi righi dell'Antico Patto dell'Alleanza: "por terà vesti strappate e il capo scoperto, si coprirà la barba e andrà gridando: Immondo! Immondo!" (Lv 13,45).
Il Vangelo pullula di lebbrosi: tra i bianchi borghi della Palestina e il silenzio superbo di chi non capisce la Sue parole, tra le parabole del Nazareno e le martellate della Crocifissione, campeggia il loro grido agghiacciante e premonitore: "allontanatevi, siamo infetti!". Nessuno si avvicina loro, la pietà cristiana muore nel raggio di qualche metro dalle loro piaghe. Resta solo Lui, il Vasaio nelle cui mani il fango può ritrovare forma, riacquistare bellezza e definizione, luce e calore. Lui non scappa, non fugge dalle sue responsabilità, s'addentra nel grido di dolore per cercarne l'origine e il battito. E se Lui resta - mentre tutti fuggono - il lebbroso stavolta s'avvicina lui (Mc 1, 40-45). Non l'accompagna nessuno: è un animale che puzza. L'unico caso nel vangelo di Marco in cui un ammalato s'avvicina da solo: con umiltà, con fiducia estrema, con cautela. Non c'è l'astuzia di chi vuol rubare a Gesù l'ennesimo miracolo, l'eloquenza ricca di lamenti del dolore, la mimica dell'implorazione in un volto che ormai è soltanto una spugna. Allontanato dalla società e divelto nel fisico, gli rimangono due possibilità: il miracolo, il salto nella vita, la riabilitazione sociale o restare così com'è, con tutto il male del mondo ficcato dentro di lui sino all'ultimo giorno della sua vita. "Se tu vuoi, puoi guarirmi". Lui lo punta dritto negli occhi: sente il cuore che batte, la lebbra pronta a sgretolarsi, il cuore umile che riconosce in Lui l'autore della vita: "lo voglio, guarisci!". Tra queste due frasi non si muove foglia, bestie e uomini tacciono. Solo la mano di Cristo s'allunga, compie il breve viaggio entro quella spanna d'aria, scioglie in un abbraccio la paura e la pietà.

A primavera due semi si trovavano uno a fianco dell'altro. Il primo disse: "Voglio crescere e spingere le mie radici in profondità, fare spuntare i germogli sopra la crosta della terra, dispiegare le gemme come bandiere per annunciare la primavera, sentire il calore del sole sul volto, la benedizione della rugiada sui petali". E crebbe. Il secondo replicò: "Ho paura. Se spingo le radici nel terreno, non so cosa incontrerò nel buio. Se mi apro la strada attraverso il terreno duro posso danneggiare i miei germogli. Se apro le gemme, una lumaca se le mangia. Se metto i fiori, un bambino potrebbe strapparmi da terra. E' meglio aspettare finché ci sarà sicurezza". E aspettò. Una gallina che raschiava il terreno in cerca di cibo trovò il seme che aspettava. E subito se lo mangiò.

In ogni storia c'è il sintomo della lebbra: Satana è sempre al lavoro nella sua spelonca per disumanizzare la bellezza della Creazione. E' il macigno della solitudine, della miseria, del menefreghismo, dell'anonimato, della disperazione, del peccato, della mormorazione falsa, della malizia spaventosa. Macigni enormi messi all'imboccatura dell'anima, che non lasciano filtrare l'ossigeno, che bloccano ogni lama di luce, che impediscono alle parole di essere feconde. Adesso devono tacere tutti, uomini e bestie, pure il lebbroso deve rientrare in città muto nelle parole e nei gesti. Cristo impone il silenzio: dalla mansueta tenerezza della guarigione passa con veemenza al fastidio, si scalda, ammonisce, intima di tacere perché la gente sta fraintendendo tutto, ieri come oggi. L'uomo ai Suoi occhi è sempre un diamante da sgrezzare.
E anche Dio ha il suo dilemma da sciogliere: come provare compassione e intervenire senz'apparire quel fantoccio assurdo che troppa gente porta oggi nel cuore? Mica un problema da poco, sopratutto per uno che si chiama Dio.

don Marco Pozza

6 febbraio 2012

4 febbraio 2012

Caro Gesù

Ho faticato non poco a trovarti.
Ero persuaso che tu stessi laggiù,
dove il Giordano rallenta la sua corsa tra i canneti e i ciottoli,
scintillando sotto il velo tremante dell'acqua, rendendo più agevole il guado.


C'è tanta folla in questi giorni che si accalca lì,
sulla ghiaia del greto, per ascoltare Giovanni,
il profeta di fuoco che non si lascia spegnere neppure nel fiume.
Immerso fino ai fianchi dove il letto sprofonda
e la corrente crea mulinelli di schiuma,
invita tutti a entrare nell'acqua,
per rivivere i brividi di un esodo antico
e mantenere vive le promesse, gonfie di salvezza.


In un primo momento,
conoscendo la tua ansia di convivere con la gente,
e sapendo che la tua delizia è stare con i figli dell'uomo,
pensavo di trovarti in quell'alveare di umanità brulicante sugli argini.
Qualcuno, però, che pure ti ha visto uscire dal Giordano,
grondante di acqua e di Spirito,
e mescolarti tra la turba di pubblicani e peccatori,
di leviti e farisei, di soldati e prostitute,
mi ha detto che da qualche giorno eri scomparso dalla zona.


Ora, finalmente, ti ho trovato.
Ed eccomi qui, accanto a te,
non so bene se condotto anch'io dallo Spirito,
in questo misterioso deserto di Giuda, tana di fiere e landa di ululati solitari.
(d. Tonino Bello)

2 febbraio 2012

CANDELORA, nel detto popolare...

"CANDELORA"
DELL'INVERNO SEMO FORA,
MA, SE PIOVE O TIRA VENTO,
DELL'INVERNO SEMO DENTRO.

"CANDELORA" FESTA DELLA LUCE: 2 Febbraio, Presentazione di Gesù

Festa delle luci (cfr Lc 2,30-32), ebbe origine in Oriente con il nome di ‘Ipapante’, cioè ‘Incontro’. Nel sec. VI si estese all’Occidente con sviluppi originali: a Roma con carattere più penitenziale e in Gallia con la solenne benedizione e processione delle candele popolarmente nota come la ‘candelora’. La presentazione del Signore chiude le celebrazioni natalizie e con l’offerta della Vergine Madre e la profezia di Simeone apre il cammino verso la Pasqua. (Mess. Rom.)

La festività odierna, di cui abbiamo la prima testimonianza nel secolo IV a Gerusalemme, venne denominata fino alla recente riforma del calendario festa della Purificazione della SS. Vergine Maria, in ricordo del momento della storia della sacra Famiglia, narrato al capitolo 2 del Vangelo di Luca, in cui Maria, in ottemperanza alla legge, si recò al Tempio di Gerusalemme, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, per offrire il suo primogenito e compiere il rito legale della sua purificazione. La riforma liturgica del 1960 ha restituito alla celebrazione il titolo di "presentazione del Signore", che aveva in origine. L'offerta di Gesù al Padre, compiuta nel Tempio, prelude alla sua offerta sacrificale sulla croce.
Questo atto di obbedienza a un rito legale, al compimento del quale né Gesù né Maria erano tenuti, costituisce pure una lezione di umiltà, a coronamento dell'annuale meditazione sul grande mistero natalizio, in cui il Figlio di Dio e la sua divina Madre ci si presentano nella commovente ma mortificante cornice del presepio, vale a dire nell'estrema povertà dei baraccati, nella precaria esistenza degli sfollati e dei perseguitati, quindi degli esuli.
L'incontro del Signore con Simeone e Anna nel Tempio accentua l'aspetto sacrificale della celebrazione e la comunione personale di Maria col sacrificio di Cristo, poiché quaranta giorni dopo la sua divina maternità la profezia di Simeone le fa intravedere le prospettive della sua sofferenza: "Una spada ti trafiggerà l'anima": Maria, grazie alla sua intima unione con la persona di Cristo, viene associata al sacrificio del Figlio. Non stupisce quindi che alla festa odierna si sia dato un tempo tale risalto da indurre l'imperatore Giustiniano a decretare il 2 febbraio giorno festivo in tutto l'impero d'Oriente.
Roma adottò la festività verso la metà del VII secolo; papa Sergio 1 (687-701) istituì la più antica delle processioni penitenziali romane, che partiva dalla chiesa di S. Adriano al Foro e si concludeva a S. Maria Maggiore. Il rito della benedizione delle candele, di cui si ha testimonianza già nel X secolo, si ispira alle parole di Simeone: "I miei occhi han visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti". Da questo significativo rito è derivato il nome popolare di festa della "candelora". La notizia data già da Beda il Venerabile, secondo la quale la processione sarebbe un contrapposto alla processione dei Lupercalia dei Romani, e una riparazione alle sfrenatezza che avvenivano in tale circostanza, non trova conferma nella storia.

Autore: Piero Bargellini

27 gennaio 2012

TRA IL DIRE E IL FARE, UNA STORIA DI LIBERAZIONE

IV Domenica del tempo ordinario  -  29 gennaio 2012

In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava. (...). Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui. Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!». La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea. (Marco 1, 21-28)

Questo Vangelo ci riporta la freschezza della sorgente, lo stupore e la vivacità dell'origine: la gente si stupiva del suo insegnamento.
Come la gente di Cafarnao, anche noi ci incantiamo ogni volta che abbiamo la ventura di incontrare qualcuno con parole che trasmettono la sapienza del vivere. Che comunicano una sapienza, sulla vita e sulla morte, sull'amore, sulla paura e sulla gioia.
Parole che aiutano a vivere meglio.
Di fatto, sono autorevoli soltanto le parole che accrescono la vita.
Gesù insegnava come uno che ha autorità. Ha autorità chi non soltanto annuncia la buona notizia, ma la fa accadere.
La buona notizia è un Dio che libera la vita.
Gesù ha autorità perché si misura con i nostri problemi di fondo, e il primo di tutti i problemi è «l'uomo posseduto», l'uomo che non è libero.
Volesse il cielo che tutti i cristiani fossero autorevoli!
E il mezzo c'è: si tratta non di “dire” il Vangelo, ma di “fare” il Vangelo, non di predicare ma di diventare Vangelo, tutt'uno con ciò che annunci: una buona notizia che libera la vita, fa vivere meglio, dove nominare Dio equivale a confortare la vita.
Mi ha sempre colpito l'espressione dell'uomo posseduto: “Che c'è fra noi e te Gesù di Nazaret? Sei venuto a rovinarci?”.
Gesù è venuto a rovinare tutto ciò che rovina l'uomo, a demolire ciò che lo imprigiona, è venuto a portare spada e fuoco, a rovinare tutto ciò che non è amore.
Per edificare il suo Regno deve mandare in rovina il regno ingannatore degli uomini genuflessi davanti agli idoli impuri: potere, denaro, successo, paure, depressioni, egoismi.
È a questi desideri sbagliati, padroni del cuore, che Gesù dice due sole parole: “Taci, esci da lui!”. Tace e se ne va questo mondo sbagliato. Va in rovina, come aveva sognato Isaia, vanno in rovina le spade e diventano falci, si spezza la conchiglia e appare la perla. Perla della creazione è l'uomo libero e amante.
Questo Vangelo mi aiuta a valutare la serietà del mio cristianesimo da due criteri: se come Gesù, mi oppongo al male dell'uomo, in tutte le sue forme; Se come lui porto aria di libertà, una briciola di liberazione da ciò che ci reprime dentro, da ciò che soffoca la nostra umanità, da tutte le maschere e le paure.
Un verso bellissimo di Padre Turoldo dice: Cristo, mia dolce rovina, gioia e tormento insieme tu sei. Impossibile amarti impunemente. Dolce rovina, Cristo, che rovini in me tutto ciò che non è amore, impossibile amarti senza pagarne il prezzo in moneta di vita! Impossibile amarti e non cambiare vita e non gettare dalle braccia il vuoto e non accrescere gli orizzonti che respiriamo.
(Ermes Ronchi)


26 gennaio 2012

INDIGNATO, CHIAMATO A SCENDERE DALLA BARCA

Nei giorni scorsi mi sono chiesto che fine hanno fatto gli indignados.
Un popolo sceso sulle piazze di tutto il mondo, che a Roma ha assistito attonito alla pazzia di alcuni violenti pseudo contestatori, sembra come svanito nel nulla.
Sembra quasi non ci sia più nulla per cui indignarsi!
Una vignetta che mi è giunta in questi giorni, mi provoca un sorriso amaro.
Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva:
Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone,
mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori.
Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini».
E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti.
E subito li chiamò.
Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.
(dal Vangelo di Marco 1,14-20)

Gesù invita i suoi primi amici a scendere dalla barca per mettersi in gioco in una missione ancora misteriosa al loro sapere.
Un comandante in preda all’urgenza di porre rimedio a un disastro, invita invece a salire nella barca.
Ma di tutto questo non mi sento indignato.
Mi indignano le centinaia di persone che nello scorso weekend hanno scelto come meta turistica, il relitto di una nave, teatro di tragedia e bara di morte per alcuni.
Mi indignano i talk show costruiti ora dopo ora su testimonianze (vere e ahimè, false), immagini reali o presunte, che incollano migliaia di italiani alla TV.
Mi indignano i giornalisti che rasentano il rischio di sostituirsi agli organi preposti a indagare.
Niente da dire, un bel colpo mediatico!
Un errore umano che, grazie a Dio, non è stata la riedizione di ben più gravi disastri del mare (Titanic docet).
Un uomo che, secondo il mio modesto parere ha perso la testa, ora incriminato come il peggior criminale della terra.
Nessuno renderà mai serenità a quanti piangono la scomparsa di qualche persona cara e difficile sarà riacquistarla per chi ha subito lo schock del naufragio.
Per un uomo, comandante per mestiere, ci sarà un futuro di schiavitù che lo legherà per sempre all’onta del’umiliazione e dell’imperdonabile errore.
Temo invece – ahimè - che per i molti incollati alle TV di tutto il mondo, tra qualche settimana quando un altro ineluttabile nuovo evento emergerà, questo dramma del mare scomparirà nel dimenticatoio.

Che cosa ci resta?
Scenderà dalla barca dell’omologazione di massa e riappropriarsi della propria originalità e unicità!
L’invito di quel Messia che solcava le spiagge del Mar di Galilea, era e continua ad essere originale.
Lui chiama per nome!
Un chiaro invito ad essere ciò per cui siamo stati voluti e creati. Un invito a saper andare controcorrente, quando serve, per amore della Verità.
La verità che è dono e prerogativa dell’uomo che si lascia illuminare dall’alto.
“Scendere dalla barca”, significa anche scendere nella profondità della propria mente e del proprio cuore.
Scoprire che non si è soli, ma che abbiamo un riferimento chiaro e certo per come comportarci, cosa pensare e cosa dire, di fronte agli eventi della vita.
Ciò che può risuonare forte dentro il cuore del cristiano, non possono che essere gli stessi sentimenti e lo stesso modo di pensare e agire di Colui che è parametro di riferimento di tutti i giorni. Cristiano è colui che si riconosce in Cristo!
La sua attività principale è quella di inondare il mondo di misericordia.
Misericordia è avere un cuore semplice, umile, misero … un cuore che non si preoccupa dei particolarismi indispensabili a costruire notizie accattivanti, ma semplicemente ama. Ama, punto e a capo!

Anche se indignato, amo i curiosi, amo i giornalisti, amo gli incollati ai video. Amo e compatisco.
Ho misericordia per l’errore umano. Non sarò io, perché non voglio e non posso esserlo, a deciderne le conseguenze. Ci penserà solo ed esclusivamente chi è chiamato a tale competenza e responsabilità. Niente e nessuno si sostituisca alle aule dei tribunali!
Ho misericordia, che si fa preghiera per le vittime del mare. Misericordia che per loro diventa caloroso abbraccio di eternità in Dio.
Ho un cuore sofferto che ama i famigliari e gli amici delle vittime. Misericordia che significa dono di forza, sollievo e sostegno.
Ho un cuore rallegrato che ama quanti in questi giorni spendono competenza, anche a rischio della vita, per salvare il salvabile.
Ho il cuore che sorride, perché mi sento chiamato a lasciare la barca e a mettermi in gioco con Colui che è il “tutto di tutto”. A non lasciarmi intruppare, ma usare con umiltà, la mente come la userebbe il Messia che un giorno e tutti i giorni mi chiama per nome.

19 gennaio 2012

ERANO LE QUATTRO DEL POMERIGGIO!

In quel tempo Giovanni stava con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù.
Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa maestro –, dove dimori?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.
(dal Vangelo di Giovanni 1,35-39)

Mentre camminavo per la città ho incontrato il mio vecchio insegnate di religione. Non l'avevo più incontrato. Sapevo che aveva abbandonato tutto e si era ritirato in un monastero del deserto del Medio Oriente.
Avevo letto di lui e visto un documentario sulla sua nuova esperienza di vita eremitica.
Quando lo vidi mi sentii raggelare dall'emozione. Fu un enorme piacere.
Andai da lui qualche mese dopo. Chi la conosce, sa che l'esperienza del deserto è di un'originalità e unicità che difficilmente si possono descrivere.
Dove sembra regnare il nulla, tutto diventa importante, essenziale, necessario, piacevole. Ti viene data la possibilità di scorgere i particolari e di dare un giusto valore alle cose.
L’ormai vecchio eremita - maestro ritrovato - mi faceva notare cose che distrattamente non avevo neanche visto.
L'intento era chiaro, mi ha aiutato ad aprire gli occhi.
Grazie a lui vedevo cose che l'occhio distratto non vedeva. Ma più ancora, gradualmente, mi ha aiutato ad aprire altri occhi, quelli del cuore!
Quell'occhio dentro di te che ti fa sentire attratto da una persona piuttosto che un'altra.
Quell’occhio del cuore di una mamma che guarda al figlio come la creatura più straordinaria della terra.
Quell’occhio del cuore, di due innamorati che non sanno perché, ma l’altro o l’altra, è il bene più prezioso che da’ “realizzazione” alla propria storia.
Quell’occhio del cuore di un imprenditore che guarda alla propria attività come il crescere un figlio. O dell’operaio che vede nel suo operare la realizzazione di un bene grande.
Quell’occhio del cuore che sperimenta timore e ansia di fronte alla fatica di arrivare a fine mese.
Quanti “occhi del cuore” costellano angoli conosciuti o meno del nostro esistere!
Il vecchio eremita mi ha aiutato a capire che nell’ordinario o straordinario della mia storia, c’è sempre un “erano le quattro del pomeriggio”! Esiste sempre un momento preciso per un incontro eccezionale che rende ricca la vita.
Mimetizzato nei rivoli più scontati o più misteriosi, Gesù è sempre in agguato perché desidera stabilire un contatto.
Gesù, non fa squilli al cellulare o al campanello di casa. Si maschera e prende forma in mille situazioni, persone, esperienze … Il bello di Gesù è che ci cerca. Sempre. È lui che cerca l’incontro perché le lancette, dell’orologio esperienziale della vita, si fermino a segnare un momento dopo il quale … tutto non sarà più come prima.
L’occhio, spesso fagocitato da mille lusinghiere distrazioni, possa farci incontrare con Colui che è presenza, sostegno, speranza e senso pieno al nostro andare.
Ci sia per tutti il blocco dell’orologio, perché alla ripresa del “ticchetio” si trovi il calore del cuore, la luce della mente e la sicurezza che, con Lui, “nulla ci turbi”.
"Che cosa cerchi? Vedere dove abito? Vieni! Seguimi! Vedrai e capirai... e tutto non sarà più come prima!"

7 gennaio 2012

ACQUA E FUOCO, UN BATTESIMO PER LA VITA! 08.01.2012

UNA SEMPLICE, FORSE CONFUSA, RIFLESSIONE NELLA DOMENICA IN CUI RICORDIAMO IL BATTESIMO DI GESU'.

Dal Vangelo secondo Marco  (1,7-11)
In quel tempo, Giovanni proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».
Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea e fu battezzato nel Giordano da Giovanni. E, subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba. E venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento».
PER UN BATTESIMO DI “FUOCO”
A scuola ho sempre avuto una pessima amicizia con la chimica. Ricordo che il terzo anno, dopo essere stato rimandato a settembre negli anni precedenti, il professore preso dalla disperazione, mi invitò ad uscire per una interrogazione e porre definitivamente fine al mio rapporto con la sua materia. Ricordo che mi chiese la formula dello zucchero e dell’acqua, mi diede un sei (politico?) e così si chiuse la mia relazione con la chimica.
H2O = acqua! Una particella d’idrogeno e due di ossigeno – almeno credo sia così – danno vita all’acqua.
Seppi più tardi, che il nostro corpo è composto da una percentuale altissima di acqua fin quasi al 75/80 %.
Tutti sappiamo che il destino dell’umanità è legato all’acqua. Dove non c’è acqua non c’è vita!
Sappiamo pure che la fantasia di Dio è sempre sorprendente e ci precede.
Per il suo “ingresso ufficiale” nella comune storia degli uomini, non ha scelto segni potenti o eclatanti, ma la semplicità dell’acqua!
Il Bambino-Dio che abbiamo accolto e contemplato in questo periodo, in età adulta prendendo gradualmente consapevolezza del suo essere e della sua missione, umilmente si mette in fila come tutti i mortali - fuori dalla città - dove scorre il fiume Giordano.
Lì, incontra il suo parente Giovanni Battista, uomo bizzarro agli occhi di molti, che annuncia l’arrivo del Messia e invita alla conversione che passa anche attraverso il segno di un battesimo con l’acqua.
Il Battista diceva a tutti i penitenti in fila, di predisporre il cuore per accogliere nel dovuto dei modi “Colui che deve venire”.
È un invito chiaro ad alimentare il desiderio dell’incontro.
Quant’è bella l’esperienza del desiderio, dell’attesa di un incontro. Quant’è bello il “Sabato del villaggio” di Leopardiana memoria:
 “La donzelletta vien dalla campagna / in sul calar del sole [...] Questo di sette è il più gradito giorno, / pien di speme e di gioia: / diman tristezza e noia / recheran l’ore, ed al travaglio usato / ciascuno in suo pensier farà ritorno”.
Ormai, un po’ tutti adusi ad avere tutto e subito, rischiamo di non godere più del piacere dell’attesa di un incontro. Così anche quello con “Colui che deve venire” rischia di non trovarci pronti e desiderosi di lasciarci abbracciare.
Il Battista rimane semplicemente sorpreso nel trovarselo davanti. Neanche lui si aspettava una così semplice entrata in scena del Messia.
Trovandosi di fronte a Gesù non può che arrendersi all’idea che il Battesimo d’acqua lo vuole ricevere anche lui.
Anche Gesù si fa battezzare con l’acqua!
Come dire a tutti che Dio diventa “in tutto simile a noi, eccetto il peccato”. È il nostro Dio che diventa pienamente umano e inizia così, in Gesù, la sua missione terrena!
Anche noi riempiti d’acqua nel corpo, siamo stati rivestiti da Dio, nel battesimo d’acqua che abbiamo ricevuto da piccoli.
Ma, oltre all’acqua, siamo stati unti anche con l’olio del Crisma che dice la potenza stessa di Gesù che viene inserita nel nostro essere.
“Verrà uno che vi battezzerà in Spirito Santo”, dice il Battista!
“Siamo stati battezzati in Spirito Santo”, possiamo dire noi!
Senza acqua non si vive! Senza l’acqua viva, che è il Cristo, il Figlio di Dio, la nostra vita corre a scartamento ridotto!
Gesù nella sua vita non ha mai battezzato nessuno con l’acqua. Il dono suo è ben più grande: il suo stesso Spirito!
Quanto poco viva è in noi questa consapevolezza. Sapere che abbiamo le stesse possibilità avute da  Gesù, per affrontare la fatica del vivere. Siamo sostenuti, sorretti e alimentati da una misteriosa forza che cerca di farsi largo in noi per permetterci di assaporare il piacere di sentirci non solo figli, ma anche fratelli Suoi. Dentro di noi non scorre solo il sangue tra le vene, ma anche la potenza inesplicabile di uno Spirito che ci permette di essere come Lui.
Il desiderio di incontrarLo, di lasciarci “battezzare” con il fuoco dell’amore e poter così essere come Lui, sono gli ingredienti fruttuosi per una vita … primaverile!
Dentro le pieghe di una storia che ci distoglie dall’essenziale delle cose, il poter riscoprire le alte vette a cui siamo chiamati, non può che rasserenarci e farci vivere – malgrado tutto e tutti – con il sorriso nel cuore.
Ora so che quando berrò un bicchiere d’acqua, posso ricordarmi che non solo sono “acqua” ma sono anche “fuoco dello Spirito divino”.
Grazie alla buon’anima del mio vecchio, paziente e saggio professore di chimica per quell’interrogazione indimenticabile!
Grazie al mio vecchio parroco, passato a miglior vita in un ormai lontano 4 dicembre, per l’acqua versata e l’olio unto, che mi hanno fatto diventare cristiano!
Dio, guardandoci, possa esclamare con orgoglio: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento”.